di Francesco Ciotti*
I bossoli cadono martellando il terreno, una folla disorientata si disperde, aspirando solo a quella momentanea salvezza che non grida più alcuna rivendicazione, qualcuno si accascia a terra per non rialzarsi più, urla disperate chiedono aiuto nella terra di nessuno.
E’ questo lo scenario che quasi ogni giorno si manifesta in Sudan, dopo che la giunta militare ha preso il potere a Khartoum.
Era nato tutto da un’iniziativa popolare, grandi manifestazioni chiedevano le dimissioni del colonnello Al-Bashir, alla guida del paese fin dal 1989 quando vi fu l’imposizione di una feroce dittatura militare di cui la regione del Darfur rimane ancora la più triste testimone.
Quelle lande desolate ancora riverberano a coloro che le percorrono il grande genocidio che dal 2003, secondo le Ong ha provocato oltre 400.000 vittime e 2,7 milioni di profughi, una guerra spietata perpetrata attraverso le milizie degli Janjawid, militanti islamisti filo-governativi, assoldati al fine di compiere una vera e propria carneficina ai danni della popolazione nera originaria della regione.
Il protagonista dei massacri senza fine, come sempre accade è il nostro venerato “oro nero”, il cui controllo su quelle terre dimenticate dalla storia e dalla memoria si può ottenere a qualunque prezzo.
E’ oramai di dominio pubblico l’accordo scellerato che secondo la European Coalition on Oil in Sudan (ECOS) il governo di Khartoum ha siglato con tre grandi compagnie petrolifere, la svedese Lundin, la malese Petronas e l’austriaca OMV, per lo sfruttamento di alcuni giacimenti del Darfur, il cosiddetto “Block 5A” nel 1997.
Il rapporto della ECOS evidenzia tutti gli atti compiuti dalle tre compagnie per appoggiare il massacro di civili. In particolare viene menzionata la testimonianza di un pastore presbiteriano, James Koung Nimrew che ha ammesso come le modalità per ottenere il block 5°, si siano servite senza esitazioni, di genocidi, incendi a raccolti, villaggi e abbattimenti di bestiame.
Ovviamente in documenti relativi ad altre zone calde del paese non manca la presenza di altre compagnie a noi note: si menzionano la Elf-TotalFina, la BP, la China National Petroleum Company, la Talisman Energy Inc, ecc.
Nonostante il mandato di cattura emesso dal tribunale dell’Aja nel 2010 nei confronti di Al Bashir con l’accusa di genocidio, il presidente ha mantenuto la sua carica indisturbato fino a pochi mesi fa, quando l’11 aprile è stato arrestato dai militari.
Un varco di speranza si era allora aperto tra la popolazione, che aveva interpellato il nuovo potere per gestire una transizione pacifica, attraverso la mediazione di organizzazioni della società civile, aspirando a future elezioni democratiche e rappresentative.
Vane promesse stroncate dal motto “gattopardiano” di coloro che davvero hanno interesse verso quelle terre e bene hanno inteso che “per mantenere le cose come sono, bisogna che tutto cambi” e ai vecchi bastoni consumati Al Bashir se ne devono velocemente sostituire di nuovi.
Il bilancio è di oltre 100 morti e 500 feriti da quando il 3 giugno l’esercito ha iniziato ad aprire il fuoco sui manifestanti inermi e cancellato tutti gli accordi raggiunti.
E loro sono ancora lì, nelle strade, nelle piazze, i volti indistinti si perdono tra la polvere chiedendo un futuro, cercando speranze tra gli edifici fatiscenti in una terra fuori dal mondo e dalla nostra coscienza. Tanto al di fuori, quanto è grande la nostra indifferenza rispetto a tutto questo.
*Membro gruppo Our Voice Marche (Italia)
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