Dal trattato di Bengasi agli accordi vigenti, l’Italia è la maggiore responsabile dei crimini che avvengono in Libia
di Eya Djelassi e Thierno Mbengue
Dal governo Berlusconi IV al governo Draghi, passando per il governo Conte l’Italia ha continuato a fingere di non vedere le violazioni dei diritti umani in Libia. Oltre a fingere di non vedere, i governi italiani hanno da sempre anteposto il profitto alla salvaguardia e tutela dei diritti umani dei migranti, rendendosi così complici dietro le quinte delle violenze che i rifugiati subiscono quotidianamente. La collaborazione e i diversi accordi raggiunti nel tempo tra i due paesi hanno tutelato gli interessi economici privati delle grandi società transnazionali come l’Eni, la quale è riuscita ad accaparrarsi quasi la metà delle risorse petrolifere in Libia. Mentre le milizie libiche continuano a torturare i rifugiati, con l’appoggio del proprio governo, l’Italia rimane in silenzio, poiché non mira alle strategie utilizzare ma unicamente al proprio fine, ovvero la diminuzione dei flussi migratori.
La politica italiana sulla questione libica
La politica italiana ha da sempre manifestato l'intenzione di mantenere una compatta e continua collaborazione con le autorità libiche con il sostegno all'attuazione di prassi violente e illegali, volte a respingere i migranti e a trattenerli in strutture che non garantiscono il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo. La politica estera italiana si concentra in gran parte sullo sfruttamento delle risorse energetiche del suolo libico, mirando così ad accrescere il proprio portafoglio a scapito di decine di migliaia di vite umane. La gestione della questione libica è risultata del tutto inadeguata anche nell’attuale governo, poiché non si è espressa l'intenzione di prediligere un cambio di rotta rispetto a ciò che era stato attuato dai governi precedenti.
Il 6 aprile 2021 il Presidente del consiglio Mario Draghi era volato a Tripoli per incontrare l'omologo libico Abdel Hamid Dbeibeh, aprendo così una nuova fase dei rapporti Italia-Libia. La scelta di inserire nella propria agenda di politica estera come prima tappa, la Libia non fu casuale. "Il momento è unico per ricostruire quella che è stata un’antica amicizia” è stato così che il primo ministro aveva palesato l'intenzione dello Stato italiano di riallacciare i rapporti storici con il paese nordafricano. Diversi i temi che furono discussi durante l'incontro tra i due leader; di fondamentale importanza erano stati, da una parte, la necessità di ripensare alla partnership nel campo energetico e infrastrutturale rivalutando i rapporti economici e commerciali, e dall'altra la complessa questione dei flussi migratori nel Mediterraneo. Oltre a ciò, si era parlato di sussidi sanitari per fronteggiare la pandemia da coronavirus e dell'intenzione di implementare gli scambi culturali. Sul fronte energetico, la ripresa da parte del governo di Tripoli dei contatti con la società italiana Eni aveva rappresentato un primo passo verso la realizzazione di un apparente processo di sviluppo. La Libia è il primo produttore di petrolio dell'intero continente africano, e l'azienda multinazionale, controllando ben il 45% della sua produzione, aveva assunto così un ruolo centrale dal punto di vista gestionale. La sua costante presenza sul territorio raffigurava un punto focale del piano strategico di Roma per ristabilire a livello geopolitico la propria influenza sullo scacchiere libico. Tra gli altri punti del dossier economico è riaffiorato il progetto della cosiddetta "autostrada della pace", una lunghissima autostrada costiera che dovrebbe attraversare da est ad ovest il paese, collegando il confine dell'Egitto a quello della Tunisia. L'incontro tra i due primi ministri aveva toccato anche il tema della migrazione e le dichiarazioni di Mario Draghi erano state a dir poco scandalose e deludenti.
“Esprimo soddisfazione per il lavoro della Libia sui salvataggi”, con queste poche parole si racchiudeva l'essenza della collaborazione consolidata tra le autorità italiane e le milizie libiche. Definire soddisfacente il lavoro della Libia circa i salvataggi in mare, significava ignorare deliberatamente le violenze, le torture, i raid e le atrocità che i migranti avevano subito costantemente nei campi di detenzione, i quali, altro non sono che dei veri e propri lager dove vige una sistematica violazione dei diritti umani. Tutto ciò è stato il frutto degli accordi attualmente in vigore tra Italia e Libia, rinnovati recentemente (luglio 2021), su approvazione della Camera dei deputati, grazie al rifinanziamento delle missioni internazionali.
Il trattato di Bengasi
L'accordo sopracitato altro non è che il “trattato di amicizia partenariato e cooperazione tra la Repubblica italiana e la grande Giamahiria araba libica popolare socialista” stipulato dall'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il dittatore libico Muammar Gheddafi nel 2008. Ratificato nel 2009, l'accordo si poneva come obiettivo finale quello di porre una definitiva chiusura ai danni che la Libia aveva subito dall'Italia in epoca coloniale. La Libia, grazie alla conclusione di questo trattato, era riuscita ad ottenere una “condanna” del colonialismo italiano e un relativo risarcimento danni. L’Italia si impegnava a versare alla Libia cinque miliardi di dollari in vent’anni, 250 milioni di dollari all’anno, per la realizzazione di progetti e infrastrutture, affidati ad imprese italiane con i fondi gestiti direttamente dall’Italia. In realtà, le intenzioni ultime da ambe due le parti avevano una natura meramente economica: da una parte l'Italia mirava all' approvvigionamento di petrolio con la presenza della società italiana ENI e in cambio la Libia puntava all'incremento dei propri investimenti nelle azioni di rinomate imprese italiane quali Fiat e Unicredit. Oltre all'aspetto economico, il patto stabiliva una collaborazione anche in materia di lotta al terrorismo e immigrazione clandestina. Ecco che per la prima volta si è iniziato a ragionare sulla creazione di un sistema di controllo delle frontiere libiche "da affidare a società italiane in possesso delle necessarie competenze tecnologiche”. Il trattato si impegnava ad agire in conformità con gli obiettivi e i principi sanciti della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. Ciononostante, qualche dubbio si era insinuato: la disciplina faceva comunque riferimento alle “rispettive legislazioni” e questo ha destato preoccupazione internazionale per la sorte degli immigrati in quanto la Libia non ha una legislazione avanzata in materia di diritti umani e non ha firmato la Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951.
Questa firma mancata ha portato all’assenza del diritto d’accoglienza per i rifugiati, che fuggendo da uno Stato in cui non venivano garantiti i propri diritti umani, si sono visti sempre di più respingere e abbandonare alle frontiere. L’osservanza degli accordi del 2009 ha portato l'Italia ad essere condannata nel 2012 dalla Corte di Strasburgo per intercettazione in mare e respingimento collettivo di un gruppo di richiedenti asilo di nazionalità somala ed eritrea. Durante il procedimento investigativo sui fatti accaduti, era emerso già da allora che i migranti erano delle vittime di maltrattamenti, abusi e torture nei centri di detenzione per il rimpatrio collocati sul suolo libico.
Il patto di amicizia del 2009 si basava su quattro punti fondamentali per la stretta cooperazione nel contrasto all’immigrazione: lo schieramento congiunto in acque libiche di navi Vedetta italiane e libiche, l’intercettazione in alto mare, il finanziamento di un sistema di controllo completamente gestito dalle autorità libiche e un sistema congiunto di individuazione dei migranti con rader e satellite. Di questi quattro punti, solo il secondo è stato considerato abbastanza contrario ai principi della CEDU da essere sanzionato con la sentenza contro i respingimenti collettivi in mare.
Se ad oggi la situazione in Libia non ha visto miglioramenti, una delle responsabilità ricadrebbe proprio sulla politica italiana, la quale anziché contrastare i fatti che accadevano in Libia, ha preferito la realizzazione dei propri interessi economici piuttosto che la tutela dei diritti umani, chiudendo gli occhi davanti alle atrocità che si stavano verificando. La Guardia costiera libica è stata per anni coordinata, finanziata e formata da personale italiano ed europeo. Si tratta delle stesse autorità marittime libiche che i precedenti ministri dell’interno italiano avevano lodato come fedeli alleati e con le quali si continuano tutt'ora le collaborazioni. Come è possibile ancora oggi ritenere lodevole l'operato delle autorità marittime libiche quando i suoi maggiori esponenti siedono al banco degli imputati con gravissime accuse quali: commissione di crimini contro l'umanità, contrabbando di petrolio e traffico di esseri umani? Come è possibile ritenere la Libia un posto sicuro quando quotidianamente giungono numerose notizie di denuncia di abusi perpetrati sulla pelle di migranti o dei numeri sempre più alti di chi perde la vita in mare per raggiungere la tanto "democratica" Europa?
Appare più che necessario e doveroso individuare le responsabilità su diversi livelli delle atrocità che ancora oggi i migranti patiscono “incessantemente, sia dei centri di detenzione che in acque internazionali perché tutti, dall’UE all’Onu, passando per l’Italia devono rispondere delle proprie politiche disumane in sede giudiziaria.”