CAMBIAMENTI CLIMATICI, DANA E IL FLOP DEI SUMMIT GOVERNATIVI: PRESTO SARÀ TROPPO TARDI
Dai dati raccolti dalla NASA sulle temperature della superficie terrestre negli ultimi 140 anni, dal 1880 al 2021, si evince che la temperatura media globale della Terra è aumentata di quasi un grado.
La causa principale del riscaldamento globale è il buco dell’ozono, la cui estensione massima si è registrata nel 2006, che fa passare molte più radiazioni solari del normale. Il buco dell'ozono consiste nella riduzione dello spessore dello strato di ozono nell’atmosfera terrestre, la fascia che ci protegge dai raggi ultravioletti.
L'assottigliamento dello strato di ozono è causato dal rilascio nell'atmosfera dei gas clorofluorocarburi (CFC), ovvero quei gas prodotti dalle attività industriali dell’uomo.
In questo processo, a giocare un ruolo chiave c’è anche il Sole, come si può vedere dal grafico sottostante, per via della maggiore immissione di energia che il nostro astro sta emettendo dagli anni 2000. Fatto che sta provocando grandi cambiamenti in tutto il sistema solare, come lo scioglimento dell’acqua su Marte e le tempeste esagonali che colpiscono il polo sud di Saturno, solo per citarne alcuni.
Un’altra causa del riscaldamento globale, oltre all’aumento generalizzato della temperatura del pianeta, è il verificarsi di un clima estremo, che ci porterà ad assistere, in misura maggiore, a ondate estreme di calore in alcune zone del globo e ad ondate di gelo, altrettanto estreme, in altre. È questo che si intende per cambiamento climatico.
Le conseguenze a cui stiamo assistendo sono lo scioglimento dei ghiacciai alpini e polari, che hanno provocato lo spostamento dell’asse terrestre verso sud, l'innalzamento del livello e l’acidificazione dei mari, il cambiamento dei modelli di precipitazione con eventi estremi e pericolosi, la perdita di biodiversità e molto altro.
ITALIA E SPAGNA NEL MIRINO DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI
I fenomeni meteorologici che hanno colpito lo scorso mese l’Italia, ma soprattutto la Spagna, sono caratterizzati da una violenza inaudita. La tempesta che ha investito Valencia e le regioni del sud ed est della Spagna è la DANA (Depressione isolata ad alta quota), detto anche “goccia fredda”, un evento non raro in Spagna, ma che questa volta si è trasformata in una tragedia storica.
Il fenomeno consiste in una massa di aria fredda ad alta quota che avvicinandosi verso le coste, abbassandosi quindi di quota, si scontra con quella umida e calda del mare.
La goccia fredda è un fenomeno metereologico comune in Spagna, ciò che non lo è stato è la violenza con cui questa perturbazione atmosferica si è abbattuta sulle regioni del Mediterraneo.
In sole 8 ore sono precipitati circa 500 litri per metro quadro, di fatto in questo brevissimo arco di tempo è caduta la pioggia di un anno intero. Dai video realizzati dai cittadini di Valencia, la città più colpita dal cataclisma, è possibile notare come in neanche 1 ora sia cambiato lo scenario delle strade della città che si sono riempite di acqua e fango.
I danni sono stati ingenti, si sono contati più di 200 morti e centinaia di dispersi, inoltre moltissimi comuni della provincia di Valencia sono rimasti senza acqua potabile e molti altri senza elettricità. Ad avvenimento in corso si è fatta polemica sulla gestione del fenomeno metereologico, probabilmente sottostimato dalle autorità.
Il presidente della regione di Valencia Carlos Mazón è stato accusato di aver sminuito il fenomeno metereologico e di aver lanciato l’allarme con 11 ore di ritardo, quando ormai le strade erano inondate di acqua, come dimostrano i video di molti cittadini che hanno fatto il giro dei social.
L’Agenzia statale di meteorologia spagnola aveva dichiarato un primo allarme rosso alle 7.00 del mattino, ma solamente alle 20.03 di sera è arrivato l’avviso di non muoversi sui cellulari dei cittadini da parte della Protezione Civile.
Inoltre alcuni giornalisti spagnoli hanno recuperato un video, poi eliminato dalla rete, in cui il governatore della regione di Valencia sottostimava il fenomeno affermando: “Secondo le previsioni, il temporale si sta spostando, cosa che fa sperare che intorno alle ore 18 diminuirà la sua intensità in tutto il territorio della comunità”, come riportato da Rainews. Tra le varie accuse lanciate contro Mazón vi è quella di aver smantellato l'Unità di emergenza valenciana, un’unità di soccorso immediato in caso di calamità.
I vari esperti e ricercatori del settore sottolineano come questi fenomeni disastrosi, dal caldo eccessivo alle piogge torrenziali, siano due facce della stessa medaglia, ossia del cambiamento climatico. È quindi fondamentale ripianificare l’assetto urbano per far fronte a questi fenomeni che sicuramente non ci abbandoneranno nei prossimi anni.
La riprogettazione dell’assetto urbano non può essere però la soluzione alla crisi climatica che stiamo vivendo, è solo uno strumento che potrebbe permetterci di convivere con i cataclismi causati dal cambiamento climatico. Tra le azioni efficaci che permettono di effettuare un vero e proprio contrasto alla crisi climatica vi è la riduzione delle emissioni CO2.
Circa il 60% delle emissioni totali dell’UE proviene da trasporti, agricoltura, edilizia e gestione dei rifiuti. La Commissione ha proposto un taglio delle emissioni di questi settori del 40% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005. A questo proposito, il Parlamento europeo ha approvato la Legge europea sul clima, che innalza l'obiettivo di ridurre le emissioni nette di gas serra di almeno il 55% entro il 2030 (dall'attuale 40%), in modo tale da raggiungere le cosiddette “emissioni zero” entro il 2050.
In questo contesto di riduzione delle emissioni di CO2 giocano un ruolo fondamentale anche le attività dei super-ricchi. Secondo il report “Carbon Inequality Kills”, pubblicato da Oxfam, cinquanta dei miliardari più ricchi del mondo emettono in un’ora e mezza più CO2 di quanto una persona comune ne emetta in tutta la sua vita.
La proposta, caldeggiata anche da Oxfam, di introdurre una tassa globale che colpisca i patrimoni dei super-ricchi, è stata affossata lo scorso luglio in sede di riunione dei ministri del G20 dagli USA.
Insieme alle istituzioni e alle aziende che programmano e attuano politiche di riduzione della CO2, è necessario anche che i miliardari cambino il loro stile di vita.
COLPITO ANCHE IL SUD AMERICA
Nel corso del 2024 sono bruciati più di 15 milioni di ettari di foreste tra Brasile, Bolivia, Venezuela e Perù. Sta andando a fuoco uno degli ecosistemi più ricchi e fondamentali del nostro pianeta; secondo Copernicus, il programma europeo di osservazione satellitare della Terra, le emissioni inquinanti correlate agli incendi hanno raggiunto livelli mai visti prima.
La gran parte degli incendi boschivi ha colpito l’Amazzonia, la più grande foresta pluviale del mondo, il nostro polmone verde, e il Pantanal la più grande zona umida della Terra.
Il Brasile è lo Stato più colpito, con un aumento degli incendi del 144% rispetto al 2023, sicuramente favorito da una fortissima siccità, le megatonnellate di carbonio prodotto sono state pari a 183 e il fumo causato dagli incendi ha raggiunto l’oceano Atlantico.
Secondo Helga Correa, specialista in conservazione del WWF Brasile, la vegetazione ammortizza l’aumento di temperatura della Terra convertendo le radiazioni solari in carbonio fissato nei tronchi o nelle foglie. Nel momento in cui la vegetazione brucia, questa energia immagazzinata viene liberata sotto forma di calore generando una cappa soffocante nelle aree colpite.
L’impatto di questi eventi disastrosi causa conseguenze non solo nel breve periodo ma anche a lungo termine alimentando, di fatto, ancor di più il cambiamento climatico.
Il 99% degli incendi in Sudamerica sono causati dall’azione umana, per fare spazio a coltivazioni e allevamenti, ma sono anche causati per motivi politici. Gran parte degli incendi si sviluppano in terreni vicino a industrie agroalimentari e zootecniche.
L’obiettivo dei piromani è quello di svalutare il territorio protetto in modo da poterlo poi comprare e utilizzare a scopo economico. Tutto questo è possibile anche a causa delle modifiche sulla legge forestale avvenute nel 2023, secondo cui le grandi aziende non devono più dimostrare che i territori che vorrebbero acquisire siano zone agricole e non forestali.
A parere del Word Weather Attribution (WWA), un gruppo di specialisti che studia e ricerca quanto il cambiamento climatico influenzi i cataclismi, il riscaldamento globale causato dai combustibili fossili rende il polmone verde della Terra più secco e infiammabile, diventando un ambiente ideale per le fiamme, ancor più difficili da spegnere. I fattori legati al clima, come le alte temperature registrate in questo anno, la siccità e la scarsa umidità del suolo hanno determinato l’elevato numero di ettari bruciati in America Latina.
Sempre più preoccupante continua a essere la perdita di biodiversità, secondo MapBiomas dal 1985 il Cerrado, un’ampia savana tropicale del Brasile, ha perso 380.000 km2 di bioma.
Risulta dunque sempre più necessario un maggior impegno da parte delle autorità nel tutelare questi ecosistemi, poiché gran parte degli incendi sono di origine dolosa e criminale, quindi possono essere evitati.
Il maggior numero degli incendi si verifica in aree private, rendendo evidente che agricoltori e allevatori continuino a praticare la deforestazione contro i divieti imposti per legge.
Dalle immagini satellitari, però, è possibile notare come gli incendi si sviluppino sia da aree zootecniche e agroindustriali che da terreni pubblici, infatti, spesso i terreni statali vengono incendiati per facilitarne la concessione agli agricoltori.
I governi e le multinazionali sono causa della distruzione degli ecosistemi del pianeta, è giunto il momento in cui la tutela della Terra e la salute del pianeta e dell’umanità prendano il posto del consumismo e del capitalismo.
I RISULTATI DI COP 16 E COP 29
Dal 21 ottobre al 2 novembre 2024, si è tenuto a Cali, Colombia, il sedicesimo summit globale per la protezione della biodiversità, la Cop16.
Si è conclusa un giorno dopo la data prevista, in un misto di disillusione. Centonovantasei i paesi coinvolti (Stati uniti auto-esclusi) che sono firmatari della Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità Biologica.
Visto il prolungamento, il mancato raggiungimento del quorum ha impedito di firmare un accordo, concludendo il summit in un nulla di fatto.
La protezione della biodiversità, così come l’emergenza climatica sono problemi esistenziali strettamente legati a cui bisogna trovare una soluzione immediata. Stiamo vivendo la sesta estinzione di massa e come conseguenza delle attività umane, infatti, il tasso di estinzione è fino a 1000 volte più alto.
Negli ultimi 50 anni, i vertebrati hanno registrato in media una riduzione del 73%. Inoltre, gli ecosistemi artici, sono patrimonio di un grande varietà di specie la cui sopravvivenza è direttamente minata dal cambiamento climatico, a tutti gli effetti un patrimonio genetico in via di scioglimento.
Sebbene le preoccupazioni sulla biodiversità siano sminuite, sono molti i rischi connessi.
Il collasso dei sistemi di produzione alimentare, il rischio di malattie infettive trasmesse dagli animali all’uomo e la vulnerabilità degli ecosistemi sono una minaccia concreta e i disastri naturali, come alluvioni e incendi, sempre più frequenti ne sono un chiaro esempio.
Questo accordo, inoltre, sarebbe servito per definire come mettere a disposizione le risorse finanziarie per il Global Biodiversity Framework fund (GBF), il fondo creato per arrestare la perdita di biodiversità nelle varie aree del mondo entro il 2050.
Secondo il WWF, oggi il fondo conta poco più di 400 milioni di dollari. Gli obiettivi fissati ruotano attorno a 24 punti cardine, con lo scopo di invertire la rotta e arrestare la perdita di biodiversità. Uno dei punti riguarda l'ambizione di proteggere il 30% delle aree terrestri e marine del pianeta entro il 2030 e ripristinare il 30% degli ecosistemi degradati.
Due anni prima a Montreal, si era deciso di impegnarsi ad incrementare i finanziamenti da devolvere alle nazioni più povere e di mobilitare un minimo di 200 miliardi l’anno entro il 2030, tuttavia ad oggi questi obiettivi sembrano solo un lontano ricordo. Sono ben pochi i provvedimenti significativi e tra questi spicca la nascita del Cali Fund volto a ripartire equamente i benefici derivanti dall’utilizzo delle risorse genetiche legate alla biodiversità.
Grande attenzione è stata data alle popolazioni indigene. Questi popoli oltre ad essere custodi di preziose conoscenze, lottano in prima linea per la difesa della biodiversità, sebbene vedano il diritto ad abitare la propria terra sempre più minacciato dalle attività estrattive oltre ad essere direttamente colpiti dal degrado degli ecosistemi.
Si stima che i popoli indigeni e delle comunità locali siano stati beneficiari di appena l’1% dei flussi finanziari allocati globalmente per la difesa della biodiversità.
Inoltre, ai popoli indigeni e alle comunità locali sarà permesso di partecipare alle decisioni della Convenzione sulla Diversità Biologica e tramite la mediazione dei governi statali, beneficeranno del 50% del fondo.
Nonostante ciò non sono ancora stati discussi i dettagli di erogazione del fondo e di fatto molti elementi evidenziano criticità. Lo stesso sostiene Legambiente, riguardo ai passi avanti compiuti in materia di identificazione e conservazione delle aree marine.
Esiste un filo rosso che collega Cali a Baku, Azerbaijan, dove ha avuto luogo la Cop 29 che si è conclusa con non poche difficoltà domenica 24 novembre 2024.
Sono stati messi sul tavolo solo 300 miliardi di dollari l'anno, da devolvere alle nazioni più povere, cioè 1.300 miliardi entro il 2035.
Un risultato poco ambizioso se si pensa che sono 80 i paesi tra quelli meno sviluppati e le isole che sono minacciate dall'innalzamento dei mari e dei potenziali rischi a cui sono direttamente esposte.
I 200 stati partecipanti sono arrivati, tra accuse e polemiche, alla volontà di raggiungere un accordo che alla fine, in realtà, non soddisfa nessuno. Il coinvolgimento di soggetti come le banche multilaterali per lo sviluppo e del settore privato entro il 2035 potrebbero portare i flussi di finanziamento annui alla quota 300 miliardi l'anno. Sebbene in linea con le richieste del vertice, per raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi sarebbero serviti almeno 390 miliardi di dollari annui.
Inoltre i paesi avanzati hanno insistito molto per coinvolgere gli stati più ricchi come Cina, India e Arabia Saudita negli aiuti bilaterali vincolanti. Tuttavia, questi stati non sono soggetti ad alcun obbligo ad erogare aiuti. Un aspetto messo in luce è stato il peso che graverebbe sui paesi già fortemente indebitati.
Infatti, quanto più le risorse arrivano sotto forma di prestiti, tanto più i paesi destinatari degli aiuti finiscono per dover sottostare agli oneri per rimborsarli. Per questo è stato chiesto che il 30% dei finanziamenti siano garantiti dalla finanza pubblica.
Rimane un velo di preoccupazione riguardo i metodi attraverso cui sarà possibile raggiungere la somma, per questo il testo finale mette in luce un percorso che da Baku arriva a Belem, in Brasile, dove si terrà la Cop30.
Dopo i risultati delle ultime elezioni americane, però, gli impegni presi durante la Cop29 rischiano comunque di non essere portati a termine. Trump, infatti, vorrebbe portare gli Stati Uniti fuori dall’Accordo di Parigi, legittimando quindi un mancato impegno nella lotta contro il cambiamento climatico durante il suo mandato.
Un altro tema su cui si è a lungo dibattuto riguarda i combustibili fossili. Lo scontro vedeva Europa e Stati Uniti pronti a riconfermare l’impegno ad allontanarsi gradualmente dall’utilizzo di petrolio, gas e carbone, mentre l’Arabia Saudita definisce questi accordi una “palla da demolizione” per l’economia dei paesi che basano i bilanci sulle esportazioni dei combustibili fossili.
Della stessa idea è anche il presidente dell’Azerbaijan, considerato che il 60% delle entrate statali e il 90 % di quelle legate all’esportazione sono derivanti dai combustibili fossili.
Anche in quest’ottica, l’attuale situazione geopolitica risulta essere “un gioco di potere a favore di pochi stati produttori che giocano sulle spalle dei paesi vulnerabili a livello economico”, come ha affermato la Ministra degli esteri tedesca AnnaLena Baerbock.
Dalla Cop di Glasgow del 2021, le azioni multilaterali a favore del clima si sono gradualmente esaurite anche a causa delle tensioni geopolitiche derivanti dalla guerra in Ucraina e il genocidio perpetrato dall’esercito sionista in Palestina che minacciano di allargarsi notevolmente.
Risulta quindi lampante come la smania di potere dell'élite, sempre più incapace e irresponsabile, unita agli interessi economici globali, mirino al mantenimento dello status quo, condannando il pianeta ad un modello energetico del tutto obsoleto.
L'ennesimo fallimento nel fronteggiare il cambiamento climatico che evidenzia il rifiuto di compiere passi concreti e portare a termine gli obiettivi prefissati.
Il cambiamento climatico rappresenta una sfida centrale per il destino dell’umanità, anche se quest’ultima non sembra cosciente di aver intrapreso un percorso del tutto insostenibile che rende sempre più vicino il punto di non ritorno.