Dopo 44 anni le idee di Peppino vivono ancora
Di Alessia Bellasame
Era il 9 maggio 1978 quando Cosa nostra fece saltare in aria Peppino Impastato.
La sera dell’8 maggio, intorno alle 20.15, il giovane aveva appena lasciato la redazione di “Radio- Aut” per avviarsi verso casa. Durante il tragitto, la sua Fiat 850 venne fermata e lui fu stordito, rapito e torturato. Il suo corpo venne completamente sfigurato dalle botte e poi fatto scoppiare sui binari ferroviari di Cinisi con una carica di tritolo. Dalla mattina seguente, quando venne ritrovato il corpo, o meglio pezzi del suo corpo, iniziarono le inadempienze e i depistaggi istituzionali che permisero la messa in scena di un “attentato-suicidio”. Tutto questo accadde sia mediaticamente sia a livello di indagini, nonostante i compagni di Peppino avessero più volte denunciato il ritrovamento sul luogo della morte di elementi incontrovertibili sull’omicidio di Peppino, primo fra tutti un masso sporco di sangue.
La sua storia
Peppino Impastato nacque il 5 gennaio 1948 a Cinisi, da una famiglia mafiosa in cui il padre Luigi Impastato era il cognato di Cesare Manzella, capomafia del paese che si serviva dello spaccio di droga per accumulare denaro per i suoi affari. Inoltre Luigi era stretto amico di uno dei boss più potenti di Cosa Nostra al tempo, Tano Badalamenti.
Lo spirito, i desideri e gli ideali di Peppino però erano completamente opposti a quelli della famiglia.
I boss del paese accusavano difatti il padre Luigi di non aver educato Peppino alle “giuste regole” e lo individuava come un possibile nemico. Fu questo il motivo di distacco con suo padre, che lo cacciò di casa e ne prese le distanze anche pubblicamente. “Arrivai alla politica nel lontano novembre del '65 su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare divenuta ormai insostenibile”.
Furono queste le parole autobiografiche del giovane, da sempre ‘’dotato di entusiasmo e di un desiderio enorme di giustizia, pulizia, di onestà” come ricordava l'intellettuale siciliano Stefano Venuti. Peppino aveva appena 15 anni quando il familiare Cesare Manzella fu ucciso in un agguato nel 1963, nel corso della cosiddetta “prima guerra di mafia”, in cui la sua auto era stata imbottita di tritolo. Fu quell’evento drammatico e brutale che lo portò a dedicare la sua vita alla lotta contro la criminalità organizzata. Peppino fondò il giornalino “L'idea socialista” e aderì al PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria). Si occupò successivamente di difendere i diritti di operai e contadini dell’epoca, espropriati dopo la costruzione della nuova pista dell'aeroporto di Punta Raisi, della condanna del militarismo americano, dell'autoritarismo sovietico e dell'antifascismo.
Peppino nel 1975 costituì anche il gruppo “Musica e cultura” che svolgeva diverse attività come eventi musicali, teatrali e dibattiti. In particolare, prese piede il collettivo femminista e il collettivo antinucleare che trovarono ampio spazio nel circolo, il quale divenne ben presto un punto di riferimento per i giovani di Cinisi.
Successivamente, con la fondazione di “Radio-Aut”, un’emittente autofinanziata insieme ai suoi amici Ciccio, Benedetto, Giampiero, Guido e altri, iniziò a denunciare pubblicamente la mafia di Cinisi e Terrasini. Ma il personaggio che Peppino prese di mira più di tutti era il capomafia Tano Badalamenti affermando, nel suo programma “Onda pazza” il 7 aprile del 1978, queste parole: “C’è il grande capo, i due grandi capi, Tano Seduto e Geronimo Stefanini, sindaco di Mafiopoli [...] Sì, si stanno mettendo d’accordo sull’approvare il progetto Z-11”.
Fu proprio a causa del suo sbeffeggiare l'''onore'' dei mafiosi e dei politici della città che il boss Badalamenti ordinò la sua condanna a morte. Peppino fu assassinato il giorno prima delle elezioni comunali in cui si era candidato con la lista di Democrazia Proletaria.
Verità per Peppino
Il 9 maggio 1978 non fu solo Peppino Impastato a morire, ma anche il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro. Ciò determinò una quasi indifferenza della politica e della informazione pubblica sull’omicidio del ragazzo, che sicuramente se avesse avuto la giusta diffusione mediatica avrebbe provocato, vista e considerata soprattutto la sua giovane età e i suoi orientamenti politici, un’insurrezione giovanile importante. L’omicidio di Peppino venne dapprima classificato come un attentato terroristico finito male, successivamente come un caso di suicidio. Gli esecutori dell’omicidio, il boss di Cinisi Gaetano Badalamenti e il mafioso Vito Palazzolo, sono stati assicurati alla giustizia nei primi anni Duemila. Poi era stata la Commissione Parlamentare Antimafia presieduta da Giuseppe Lumia a mettere in luce per la prima volta le responsabilità dei carabinieri e il presunto depistaggio nell’inchiesta sulla morte dell’attivista di Democrazia Proletaria tra il 7 e l’8 maggio 1978. Solo nel 2010 però i parlamentari di Palermo Francesco Del Bene, Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia aprono l’inchiesta: l’allora generale dei carabinieri Antonio Subranni (condannato a 12 anni nel processo Trattativa) è accusato di favoreggiamento mentre i tre sottufficiali che quella notte fecero le perquisizioni in casa Impastato - Carmelo Canale, Francesco Abramo e Francesco Di Bono - sono accusati di falso in concorso. Dopo otto anni, il giudice per le indagini preliminari di Palermo Walter Turturici archivia il caso per intervenuta prescrizione. Eppure, nel decreto di archiviazione, il gip descrivendo le indagini parla di “un contesto di gravi omissioni ed evidenti anomalie investigative” tra cui la mancata indagine sulla pietra sporca di sangue a pochi passi dalla ferrovia, l’esplosivo e quel foglietto (“Voglio abbandonare la politica e la vita”) trovato durante la perquisizione che secondo i carabinieri era la prova del suicidio. Secondo il giudice, inoltre, Subranni “aprioristicamente, incomprensibilmente, ingiustificatamente e frettolosamente escluse la pista mafiosa”. Ma è tutto prescritto.
Il 5 marzo 2001 la Corte d'Assise di Palermo condannò Vito Palazzolo a 30 anni di carcere, mentre l'11 aprile 2002 la Terza Sezione riconobbe come mandante dell'omicidio Impastato Gaetano Badalamenti, condannandolo all'ergastolo. Il boss morì due anni dopo, nel 2004. Nel 2011 la Procura di Palermo ha riaperto le indagini sul depistaggio, tutt'ora in corso.
Dopo tantissimi anni in attesa di giustizia la mamma di Peppino, Felicia, se n’è potuta andare in pace, sapendo di aver dedicato ogni frammento della sua vita in onore a suo figlio.
Peppino il colore più rivoluzionario che non è mai esistito
Lo spirito rivoluzionario di Peppino era in grado di mettere a nudo e di urlare attraverso un microfono i misfatti della criminalità organizzata. Peppino era arte, giornalismo, ironia. Spesso viene ricordato solo per la sua lotta contro la mafia, quando in realtà lui condivideva, abbracciava e si esprimeva in tutte le lotte sociali, le quali non possono esistere l’una senza l’altra. Peppino era anticapitalista, comunista, socialista, femminista, ambientalista e antifascista.
Queste furono le parole di Susanna Camusso: “Non abbiamo mai immaginato che Peppino fosse un eroe, non bisogna inseguirlo come qualcosa di irraggiungibile. Per continuare il suo cammino occorre sapere che era una persona normale che aveva scelto da quale parte stare. Non c'è niente di invincibile, abbiamo pagato prezzi altissimi ma la vera democrazia sarà quando non ci sarà più la mafia e la politica non avrà più collusioni".
"Combattere le mafie dissacrandole, questa è stata la sua grande intuizione” ha affermato il presidente dell’associazione Libera Don Luigi Ciotti.
Peppino Impastato rappresenta una lotta che non si può fermare, uno spirito di coscienza che ognuno di noi dovrebbe coltivare dentro di sé e che non può limitarsi solo alla memoria, ma deve vederci partecipi in prima persona nella lotta contro qualsiasi ingiustizia sociale.
“Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non accorgerci più di niente” (Peppino Impastato).