
A largo delle coste venezuelane tutto sembra pronto per l’attuazione di un piano criminale già visto.
Secondo le ultime dichiarazioni della vicepresidente venezuelana Delcy Rodríguez e del ministro degli Interni Diosdado Cabello, il governo ha catturato almeno quattro persone che avrebbero pianificato un attacco contro la nave da guerra statunitense USS Gravely, attraccata a Trinidad e Tobago domenica 26 ottobre. L'obiettivo dichiarato sarebbe stato quello di incolpare il Venezuela per l'attacco e creare un pretesto per una "piena confrontazione militare".
Un Incidente che ricorderebbe l’attacco attacco vietnamita contro navi USA il 4 agosto 1964 nel golfo di Tonchino, in realtà mai avvenuto, stando a documenti declassificati dalla NSA, ma fu utilizzato dall'amministrazione Johnson per ottenere l'autorizzazione del Congresso alla guerra in Vietnam.
Supposizioni per ora, ma oramai si sa: la storia dell’imperialismo USA è molto ciclica e ripetitiva, senza contare che Washington ora non prova nemmeno a nascondere i suoi piani
“Se fossi al posto di Maduro, andrei subito in Russia o in Cina”, ha dichiarato il senatore americano Rick Scott, annunciando un’invasione imminente del Paese.
“I suoi giorni sono contati. Deve succedere qualcosa — un evento interno o esterno. Penso che qualcosa debba accadere”, ha aggiunto il senatore in modo sibillino.
Nel frattempo. dall’Adriatico al cuore dei Caraibi, la più imponente delle portaerei americane, la USS Gerald R. Ford (CVN‑78), cambia rotta lasciando il Mediterraneo verso il Venezuela. Fino a pochi giorni fa destinata al Mar Rosso, il suo gruppo d’attacco ha ricevuto un nuovo ordine diretto dal Segretario alla Difesa Pete Hegseth: muovere a pieno regime verso le coste sudamericane. Un cambio di piani che, secondo fonti militari, prelude all’avvio della più grande operazione statunitense nella regione dai tempi della crisi di Grenada.
A Washington si parla apertamente di una possibile escalation armata entro novembre, subito dopo il ritorno del Presidente Donald Trump dal vertice ASEAN in Corea del Sud. Gli analisti prevedono che la flotta raggiungerà il teatro caraibico nel giro di una settimana, in coincidenza con la fine dell’uragano Melissa, che per ora tiene le acque in agitazione.
“Stanno costruendo una guerra che noi impediremo”, ha dichiarato Nicolás Maduro, denunciando la mobilitazione americana come preludio a un’invasione guidata dall’élite petrolifera di Washington.
Fonti della CNN confermano che la Casa Bianca dispone di piani operativi già sul tavolo. Il Presidente avrebbe autorizzato la CIA a condurre operazioni segrete sul territorio venezuelano e starebbe valutando obiettivi strategici da colpire, pur senza chiudere del tutto la porta alla diplomazia.
Al tempo stesso, un’inchiesta del Miami Herald sostiene che la caduta politica di Maduro sia ormai data per certa. La Casa Bianca avrebbe respinto una proposta di transizione controllata presentata da Caracas tramite mediatori in Qatar: una sostituzione di Maduro con Delcy Rodríguez, senza rinuncia al sistema chavista.
Secondo i mediatori, la regia americana di queste trattative risalirebbe all’inviato speciale Richard Grenell, interlocutore diretto di emissari venezuelani a Doha. Ma per Washington, il progetto di un “madurismo senza Maduro” resta inaccettabile. Sullo sfondo, continuano le operazioni navali contro presunte imbarcazioni di narcotrafficanti: dieci natanti distrutti e 43 morti, senza prove pubbliche del loro reale coinvolgimento nel traffico di droga.
Le motivazioni ufficiali — la lotta al narcotraffico — appaiono sempre più come un casus belli. L’UNODC ricorda che il Venezuela non è un grande produttore di cocaina: quasi tutte le piantagioni si trovano in Colombia, Perù e Bolivia. Ma l’amministrazione americana insiste, dipingendo Maduro come un narco‑dittatore latitante. In sostanza, i dati ufficiali dell’ONU ridimensionano il mito del “narcostato”. Solo il 5% del traffico di cocaina proveniente dalla Colombia passa per il Venezuela. In confronto, il Guatemala e l’Ecuador rappresentano corridoi criminali ben più consistenti, ma non oggetto di analoghe campagne militari.
A rendere il quadro ancor più complesso è la figura della leader dell’opposizione María Corina Machado, divenuta nel 2025, inaspettatamente la sorpresa
mondiale del Premio Nobel per la pace, ma nulla avviene per caso. Fondatrice dell’ONG Súmate, finanziata dalle principali ONG statunitensi sponsor dei colpi di Stato (NED, USAID), secondo le indagini venezuelane, Machado sarebbe stata indirettamente coinvolta in complotti di matrice insurrezionale nel 2025, che includevano piani di sabotaggio contro infrastrutture strategiche. Accuse che tuttavia non hanno fermato l’ascesa della sua immagine internazionale, costruita come simbolo di “democrazia liberale” in opposizione al chavismo.
Oltre ad invocare senza remore un intervento militare diretto USA – per amore del suo Paese – a giugno la Machado ha presentato un piano di privatizzazione integrale dell’industria petrolifera venezuelana del valore di 1,7 trilioni di dollari, riservando il 40% degli investimenti ai giganti energetici statunitensi. L’obiettivo è ambizioso: portare la produzione a 4 milioni di barili giornalieri con 420 miliardi di dollari di capitali stranieri.
Ed ecco che in questi numeri si può osservare tutta l’essenza delle motivazioni Usa per l’intervento militare
A questo scopo il Mar dei Caraibi è stato militarizzato come mai prima d’ora dai tempi della guerra fredda: 13 navi della Marina USA, un sottomarino nucleare, 4.000 marine, con un totale stimato di 6.500-7.500 soldati nella zona e aeree avanzate (F-35, F-15, Awacs E-3, aerei da pattugliamento e
droni MQ-9).
Se Trump volesse davvero rendere fattuale la sua nuova campagna contro il narcotraffico dovrebbe dovrebbe partire dai grandi colossi finanziari americani, protagonisti di numerosi scandali negli ultimi anni. Ma dal caso TD Bank, multata nel 2024 per 3 miliardi di dollari con l’accusa di riciclaggio di proventi derivati dal traffico di droga, fino alle vicende analoghe che hanno coinvolto Wells Fargo, Citigroup e JPMorgan Chase, il flusso di narcodollari continua a scorrere indisturbato ben lontano dal Mar dei Caraibi.
Il paradosso non stupisce. La storia dei rapporti tra Washington e il narcotraffico è lunga: dal Plan Colombia del 1999 — che colpì più la guerriglia che i cartelli — al dossier Dark Alliance di Gary Webb, che documentò le complicità tra CIA e narcotrafficanti centroamericani negli anni ’80. Verso la guerra ibrida L’8 agosto 2025, il Presidente Trump ha firmato una direttiva segreta che autorizza l’uso della forza militare contro “organizzazioni narco‑terroristiche” in America Latina. Dal 2 settembre, gli Stati Uniti hanno già condotto quattro attacchi nel Mar dei Caraibi, contro imbarcazioni sospettate di traffico di droga, causando 43 morti. Caracas ha risposto mobilitando 4,5 milioni di membri della Milizia Bolivariana e schierando le difese costiere.
“Tutto il potere militare del Paese è stato posizionato in tre zone strategiche di difesa”, ha annunciato Maduro, invocando la resistenza nazionale contro quella che definisce “un’invasione annunciata”.
Dietro le motivazioni umanitarie e “antidroga”, resta l’unica verità geopolitica: il Venezuela custodisce le più grandi riserve di petrolio al mondo e mantiene solidi legami con Russia, Cina e Iran. Un triangolo che, nella visione di Washington, resta inaccettabile. La nuova guerra per il petrolio è già cominciata.