
L’antimafia sociale è un atto rivoluzionario

L’antimafia sociale è un atto rivoluzionario
Quando lo Stato tace, la comunità risponde con coraggio e memoria
Più volte si è parlato della “dicotomia tra bene e male” durante il convegno “Antimafia sociale: analisi ed esperienze dal basso”, presso Casa Memoria, lo scorso 7 maggio, durante una delle giornate dedicate al 47° anniversario dell’omicidio di mafia di Peppino Impastato. E no, non è una trattazione teologica quella sulla “dicotomia tra bene e male”, ma la conseguenza di una lettura limitata della storia della mafia.
Quando si parla di storia della mafia, siamo abituati alla tipica narrazione che ci viene proposta a partire dalla scuola o dagli altri luoghi di formazione, per cui lo Stato è bene e la mafia è male. Di certo, la mafia, in tutte le sue forme, è sempre male. Ma lo Stato? Siamo davvero sicuri che, in assoluto, lo Stato interpreti il ruolo di chi salva e difende?
L’incontestabilità del bene dello Stato, nel corso della storia, è stata smentita, perché più volte lo Stato si è dimostrato complice. Così è accaduto anche per Peppino Impastato.
La combinazione “Peppino e lotta alla mafia”, risulta oggi come una semplificazione. Peppino, da giovane militante, comunista, artista e scrittore qual era, si è occupato di una lotta intersezionale, che oggi più che mai appare contingente.
Al riguardo sono intervenuti: Marta Capaccioni (Our Voice), Elio Teresi (ass. Radio Aut), Clara Triolo (Libera Palermo), Martina Lo Cascio (Fuorimercato), Claudia Fauzia (esperta in studi di genere e project manager) argomentando circa il concetto di antimafia sociale.
L’antimafia sociale può essere definita come “un insieme di pratiche, iniziative e movimenti della società civile volti a contrastare la mafia non solo sul piano giudiziario o repressivo, ma soprattutto sul piano culturale, educativo, economico e sociale”.
L’antimafia sociale parte dal basso, dalla divulgazione.
La mafia del presente è una mafia che si riorganizza con nuove forme di controllo e di comunicazione. Di conseguenza, l’azione di contrasto alla mafia non può che fare lo stesso.
Lo aveva capito già Peppino Impastato, negli anni ’70, che bisognava essere innovativi per opporsi. Non era sufficiente allora, come non lo è oggi, combattere solo attraverso polizia e magistratura. Egli pensò ad uno strumento di comunicazione così progressista per il tempo: la radio. Perché Peppino voleva arrivare a tutti, voleva diffondere, voleva che risuonasse a largo campo che: «La mafia è una montagna di merda».
Sulla scia di Peppino, ha ricordato Elio Teresi, che: «tra il 2002 e il 2003 si crea un movimento diverso di resistenza». È nato un forum sociale antimafia, un’esperienza che ha segato l’avvenire. I ragazzi si sono organizzati per una vera lotta intersezionale, che riguardava non solo l’antimafia, ma anche l’antifascismo. Questi ragazzi volevano lasciare il segno con la loro presenza e partecipazione. Non volevano solo commemorare. «Cinisi è diventato un laboratorio politico» —ha detto Teresi— «unire le lotte, come Peppino, che era prima di tutto un partigiano, essere dirompenti e fare controinformazione». La mafia riesce ad insinuarsi ovunque: nelle scuole, nelle istituzioni, nei consigli. Questo vale anche per chi non si definisce mafioso, perché esiste la cultura mafiosa, anche nel modo di fare legalità. Sembra necessario ripensare ad una proposta nuova per fare antimafia, e a operare con un atteggiamento convinto, che allontani la paura di dire no a questa spregevole dinamica sociale.
Paradossalmente, oggi appare più difficile che negli anni ’70, condividere informazioni sulla militanza delle diverse parti d’Italia. Peppino utilizzava “Radio Aut” come strumento di unione.
Peppino impastato analizzava la mafia comprendendone, prima di tutto, il coinvolgimento con la politica. È da questo che deriva la visione intersezionale. «Perché» —ha detto Marta Capaccioni— «la mafia è integrata nel potere politico. É quindi necessario saper trasmettere la verità ai giovani, allontanandosi dal circoscritto schema per cui la mafia è male e lo Stato è bene. Perché, in questa delimitazione, viene meno il processo di verità, che prevede una coesistenza di sfumature». Se si parla di intersezione, non può non citarsi il Ponte sullo Stretto: un'opera che non solo prevede rischi idrogeologici e sismici, ma che tende ad “unire” —come dice Don Ciotti— “non due coste, ma due cosche”. L’unica utilità del ponte è connessa ad interessi militari, per le basi NATO in Sicilia. Così emerge, ancora una volta, come la lotta alla mafia si addizioni ad altro, in questo caso alla lotta alla
guerra. «Serve unire le terre per combattere il sistema politico-affaristico- mafioso» ha concluso Marta Capaccioni.
Clara Triolo ha proseguito il dibattito con una sua frase più che condivisibile da molti siciliani: «Agisco per l'esigenza di espiare una colpa primordiale da siciliana». Questo è l’impulso che la spinge a fare antimafia. Ha detto: «Polarizzarsi sulle cose non è sempre giusto. Si deve guardare al contrasto alla mafia come una rivendicazione della complessità degli spazi». Quindi, ancora una volta, si deve provare a non stigmatizzare il tutto ad un duello tra lo Stato buono e forte contro la mafia.
Nel progetto “Amunì”, di cui fa parte, Clara Triolo, ha raccontato come attraverso l'uso della memoria si possa osteggiare la mafia. Con i ragazzi coinvolti in questo progetto, si ricordano persone come Lia Pipitone, uccisa a 25 anni per volontà del boss Madonia. In quanto lei voleva divorziare dal marito, ma questo —secondo Cosa Nostra— avrebbe rappresentato un’offesa.
I vari boss, allora, si accordarono con il padre di Lia — anche lui boss del quartiere Acquasanta — per organizzarne l’omicidio.
Alla luce della storia della madre, il figlio la come un esempio di antimafia, che gli è stato trasmesso non con la sua morte, ma con la sua vita. Perché è durante la sua vita che Lia gli ha insegnato come opporsi alla mafia e lottare contro questo sistema.
Inoltre, parlare di antimafia sociale significa anche affrontare il tema dei diritti negati. Facendo riferimento al solo articolo 3 della Costituzione, si può sviluppare una lunga lista di diritti violati. Si deve agire in questi termini, altrimenti si lascia spazio alla mafia, che ascolta le domande esigenti di chi necessita di servizi. Non è una novità che la mafia, ad esempio, fornisca lavoro. Spesso accade che i ragazzi coinvolti nella vita della criminalità organizzata ci si trovino per necessità, per mancanza di alternative, per mancanza di spazi da abitare e di possibilità. Forse è su questo che si deve investire.
Sono necessari luoghi dove incontrarsi, dove coltivare uno spirito rivoluzionario. Strettamente connessa, infatti, alla lotta alla mafia è la necessità di tutelare diritti fondamentali, come il diritto allo studio e il diritto al lavoro.
È proprio sul lavoro che Martina Lo Cascio sottolinea come il potere mafioso e lo sfruttamento siano interconnessi. Questi si insinuano anche nel lavoro dei migranti nel settore agricolo.
Questo modo di dirigere il lavoro fa sì che l'antimafia non sia uguale per tutti, perché non tutti la possono praticare alla stessa maniera. L’unica cosa che sembra essere davvero importante è l'ottenimento di capitale e la gestione di posizioni di potere.
Quindi, qual è lo Stato al quale si fa riferimento? Uno Stato che, dopo conquiste come quella della cattura del boss latitante Messina Denaro, torna a presentarsi come vittorioso?
La nostra richiesta è quella di uno Stato di diritto, di una giustizia formativa, che parta dal quotidiano. Lo Stato non può limitarsi ad agire in maniera repressiva.
Anche fare un corteo in memoria di un bracciante sfruttato è un segno di antimafia sociale. Di fronte alla mancanza di una mobilitazione di massa, la soluzione sembra essere quella di ricercare una comunità di intenti: un senso di appartenenza non solo ideologico, che permetta di trasformare la società.
In seguito, ha continuato Claudia Fauzia, argomentando il tema dell'antimafia sociale da un punto di vista legato alle nuove tecnologie e comunicazioni: «Noi ci uniamo per il simbolo di Peppino» — ha detto — «perché questo è diventato dopo la sua morte. Ma anche per lotte come quella femminista, di cui è esempio la stessa Felicia Impastato, con le forti decisioni da lei prese: andando a votare, raccontando quanto è accaduto, e non arrendendosi al fatto che voleva riconosciuto l'omicidio di mafia nei confronti di Peppino. L'antimafia sociale è l'insieme delle pratiche quotidiane che devono cambiare la narrazione. Questo è quello che ci permette di distinguerci da chi fa antimafia per mestiere». Insieme al collettivo di Peppino c'era il collettivo femminista contro le violenze di genere, o per la promozione dell’aborto. Così, di nuovo, si presenta la lotta intersezionale: l’eredità più grande di Peppino.
Inoltre, non vanno sottovalutati i cambiamenti che avvengono ogni giorno nei contenuti dell'antimafia sociale. È inevitabile ormai fare i conti con l'intelligenza artificiale. Ma ci stiamo formando a riguardo?
— ci ha domandato Claudia — L'antimafia può utilizzare l’intelligenza artificiale come suo strumento di lotta? Perché il futuro è questo.