
L’Europa della pace è un ricordo: la NATO apre la strada alla terza guerra mondiale

L’Europa della pace è un ricordo: la NATO apre la strada alla terza guerra mondiale
Da promessa democratica a macchina bellica, l’Unione Europea abbandona i suoi valori fondanti e si piega ai diktat dell’Alleanza Atlantica.
James Sheehan definisce l’“età post-eroica” europea come un lungo periodo di pace e prosperità iniziato negli anni Cinquanta, un’epoca in cui l’Europa ha sperimentato un equilibrio inedito tra stabilità politica, crescita economica e coesione sociale. Questo momento storico è il risultato di un complesso processo di ricostruzione e integrazione, che ha visto la nascita di istituzioni sovranazionali e un sistema di cooperazione volto a superare le divisioni storiche e i conflitti che avevano segnato il continente per secoli. Tale periodo ha permesso agli Stati europei di costruire un modello di convivenza basato su valori condivisi quali la democrazia, lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani, offrendo una prospettiva di pace duratura e progresso collettivo.
Argomenta che, le frontiere europee, intese non solo come confini geografici ma come spazi di interazione tra diverse realtà economiche, culturali e politiche, sono diventate il luogo in cui si concentrano le contraddizioni più evidenti: da un lato, la presenza di ricchezza e sviluppo, dall’altro la marginalità e la povertà; da un lato, la tutela del diritto e delle istituzioni, dall’altro forme di violenza e conflitto che persistono o si rinnovano. In questi spazi di frontiera, dove si scontrano pace e guerra, si giocherà il destino degli Stati civili europei.
Tuttavia, osservando la realtà che ci appartiene, viene da pensare che il futuro degli Stati civili europei rischi di essere molto meno civile di quanto sembri. Con un aumento significativo delle esportazioni di armi negli ultimi anni, di politiche che hanno favorito il perpetuarsi di modalità non conformi ai principi sanciti dalla nostra Costituzione o anche al principio di rigore e trasparenza (nella fattispecie dello Stato Italiano), e dei tentativi dei singoli Stati di salvaguardare i propri interessi economici, spontaneo è chiedersi se, uno dei valori comuni su cui la stessa Unione Europea si basa: ‘promozione della pace e della stabilità’, non sia che l’ennesima dimostrazione di quanto l’ideale democratico si sia progressivamente affievolito, fino a rendersi impercettibile.
ReArm-Europe: 800 miliardi di investimenti
Negli ultimi dieci anni, l’Unione Europea ha conosciuto una rapida trasformazione nel sostegno all’industria degli armamenti. Dall’introduzione di strumenti di finanziamento come il Fondo europeo per la difesa (European Defence Fund - EDF), all’Act in Support of Ammunition Production (ASAP) – pensato per accelerare la produzione di munizioni su larga scala – fino al più recente e ambizioso piano ReArm Europe, l’orientamento verso il rafforzamento militare è ormai esplicito.
Quest’ultimo piano si sviluppa lungo due direttrici principali: da un lato, incentivare l’aumento degli investimenti nazionali nella Difesa; dall’altro, rafforzare il coordinamento a livello comunitario.
Il primo aspetto è principalmente economico: l’obiettivo è spingere gli Stati membri ad aumentare la spesa militare, in linea con l’impegno del 2% del PIL previsto anche dalle clausole NATO. Le disparità attuali sono evidenti: se la Polonia investe oltre il 4% del proprio PIL e Lettonia ed Estonia superano il 3%, Paesi come Italia e Spagna restano sotto l’1,5%. Per confronto, nel 2024 gli Stati Uniti hanno destinato alla difesa il 3,4% del proprio PIL.
Per facilitare il raggiungimento di questi obiettivi, ReArm Europe prevede l’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del Patto di stabilità. Grazie a questo meccanismo, gli Stati membri potranno temporaneamente superare il limite del 3% nel rapporto deficit/PIL senza incorrere in sanzioni, purché l’extra deficit sia destinato esclusivamente alla spesa militare.
Ulteriori risorse arriveranno dai Fondi di coesione europei, tradizionalmente destinati a sostenere le aree economicamente e socialmente più svantaggiate all’interno degli Stati membri. Per la prima volta, una parte di questi fondi potrà essere impiegata anche nel settore della Difesa, a condizione che gli investimenti producano ricadute positive anche in ambito civile. Questa novità ha già sollevato critiche e perplessità tra diversi partiti politici, preoccupati per la distorsione degli obiettivi originari dei fondi. La Commissione Europea, tuttavia, ha chiarito che l’utilizzo militare di queste risorse è facoltativo e lasciato alla discrezione dei singoli governi nazionali.
Un ruolo significativo sarà affidato anche ai capitali privati, che verranno incentivati attraverso una revisione delle normative finanziarie per ridurre le barriere tra i mercati nazionali. L’obiettivo è attrarre investimenti da parte di gruppi transnazionali nel comparto militare. Parallelamente, si prevede una modifica allo statuto della Banca Europea per gli Investimenti (BEI), che attualmente non consente investimenti diretti nel settore della Difesa. La riforma permetterebbe alla BEI di operare come banca pubblica per investimenti a lungo termine anche nel campo militare, ampliando di fatto le sue competenze in una direzione fino a oggi esclusa.
Vertice Nato: all’Aia l’Europa sceglie la via del riarmo

I capi di Stato e di governo dei 32 Paesi aderenti alla Nato si impegnano nel più grande piano di investimento armamentistico dopo la fine della seconda guerra mondiale, che prevede destinato il 5% del Pil annuo nelle esigenze fondamentali di difesa (3,5% per le spese militari tradizionali e 1,5% per una categoria generica che include “protezione delle infrastrutture critiche, difesa delle reti, preparazione civile e resilienza”), entro il 2035. È quanto si legge nella dichiarazione finale del summit dell’Alleanza Atlantica svoltosi all'Aja, in Olanda, tra il 24 e il 25 giugno.
Tra il business puro e l’haiku dimplomatico (cinque paragrafi, 427 parole), l’esito del documento, con un tono dettato dal presidente americano Donald Trump, si riassume in un messaggio semplice: l’Europa deve pagare.
Dal documento (che nomina Mosca e Kiev una sola volta), come ampiamente previsto, è esclusa ogni menzione a un futuro ingresso dell'Ucraina nell'Alleanza, al contrario di quanto si può leggere nella dichiarazione di Washington del 2024 (con più di quaranta riferimenti a Russia e Ucraina) dove si stabilì il principio del "percorso irreversibile". La realtà sul campo ha costretto i leader occidentali a una dolorosa revisione delle loro ambizioni, ma senza il coraggio di ammetterlo pubblicamente.
E il silenzio è una scelta ben precisa, è necessario per non irritare Trump, il quale ha evitato ogni condanna al presidente russo Vladimir Putin. Per quanto riguarda il supporto all’Ucraina, resta affidato a “duraturi impegni sovrani” dei singoli Paesi della Nato. Nessun impegno collettivo quindi.
Ma è l’intera architettura strategica del vertice a poggiare su un presupposto errato: l’ipotesi di un confronto militare diretto e vincente con la Russia. Il documento conclusivo fa riferimento alla “minaccia a lungo termine rappresentata dalla Russia per la sicurezza euro-atlantica”, ma omette deliberatamente ogni menzione alla “guerra di aggressione in Ucraina”. Un’evoluzione terminologica che tradisce l’imbarazzo dell’Alleanza di fronte al fallimento della strategia ucraina e alla riluttanza di Washington ad accentuare il confronto con Mosca, un approccio che sembra distante dalle inclinazioni dall’attuale inquilino della Casa Bianca. Questo perché, dopo oltre tre anni di guerra, miliardi di dollari in aiuti militari e l’applicazione del più rigoroso regime sanzionatorio della storia recente, la Russia non solo tiene testa, ma guadagna terreno.
Incapace di gestire la crisi ucraina, la NATO cerca di reinventarsi trovando nuovi nemici. Alla vigilia del vertice, Rutte ha intensificato la retorica ostile nei confronti della Cina, definendo l’espansione militare di Pechino “senza precedenti” e una minaccia diretta per l’Occidente. “Non stanno accumulando forze per parate a Pechino”, ha avvertito il segretario olandese, preparando l’Occidente a uno scontro su due fronti: in Europa contro la Russia e in Asia contro la Cina. L’idea che l’Alleanza, concepita per la difesa del Nord Atlantico, possa estendere la propria leadership al Pacifico è il segno più evidente di un’egemonia occidentale in declino.
Il vero vincitore è l’industria bellica
Se c’è un settore che, oltre a non essere mai in crisi, ha motivo di festeggiare gli esiti del vertice, quello è l’industria militare a stelle e strisce. L’impegno a “eliminare le barriere commerciali della difesa tra gli alleati” e a “sfruttare le partnership per promuovere la cooperazione industriale della difesa” rappresenta un regalo di centinaia di miliardi a quello che già il presidente americano Dwight D. Eisenhower, nel suo discorso di addio alla nazione del 17 gennaio 1961, aveva definito come “complesso militare-industriale”, data la nostra dipendenza in tema di armamenti dagli Stati Uniti.
Il mantra della “guerra di produzione” utilizzato da Rutte – unite, innovate e consegnate – trasforma la NATO da alleanza militare difensiva in cartello industriale, dove la sicurezza diventa un pretesto per ingenti trasferimenti di denaro pubblico verso il settore privato della difesa, con il fine di salvare il fallimentare bilancio pubblico degli USA.
La Spagna non si allinea, Sánchez diserta la fiera delle armi
Pedro Sánchez ha detto no. Mentre gli altri leader firmavano l’impegno ad aumentare la spesa militare fino al 5% del PIL entro il 2035, Sánchez ha firmato sì la dichiarazione finale, ma solo dopo aver ottenuto una deroga che consente alla Spagna di fermarsi al 2,1%, sufficiente – secondo le stime delle stesse forze armate spagnole – a rispettare gli obiettivi di capacità fissati dalla NATO per il periodo 2026-2029.
Una posizione che ha fatto rumore, tanto da spingere il Tycoon a definire Madrid “un problema” e a minacciare ritorsioni commerciali con un raddoppio dei dazi. Ma il premier spagnolo ha risposto con fermezza: “I negoziati sui dazi si fanno con l’Unione Europea, non con i singoli Paesi”.
Sánchez ha difeso la scelta con parole nette, definendo l’obiettivo del 5% “sproporzionato, incompatibile con il nostro modello sociale e inutile per le reali esigenze di sicurezza del Paese”, dal momento che “passare dal 2 al 5 per cento – ha dichiarato – ci costringerebbe a oltrepassare le nostre linee rosse, ci costringerebbe o ad aumentare drasticamente le tasse sulla classe media, o a ridurre drasticamente le dimensioni del nostro Stato sociale”.
“La Spagna è un Paese sovrano e solidale”, ha ribadito, sottolineando che le vere minacce per il Paese non sono solo militari, ma riguardano il crimine organizzato, la migrazione irregolare, l’instabilità nel Sahel e la cybersicurezza.
Il compromesso raggiunto con il segretario generale Mark Rutte prevede che la Spagna mantenga il proprio impegno sulle capacità militari, ma con flessibilità: il rispetto degli obiettivi sarà riesaminato nel 2029. Una scelta che ha isolato Madrid sul piano diplomatico, ma che ha anche mostrato una leadership capace di anteporre il benessere dei cittadini alle pressioni geopolitiche. In un’Europa sempre più allineata agli interessi dell’industria bellica, la Spagna ha scelto di difendere il proprio di sistema di welfare, fatto di istruzione pubblica, sanità e pensioni. E lo ha fatto con coraggio.