La serata di Resistenze ha mostrato come la Palestina venga colpita da più fronti:
dalle bombe e dalle parole.
La gabbia delle “vittime perfette”, la grammatica della deumanizzazione, la spettacolarizzazione del dolore, i doppi standard del diritto internazionale: tutto concorre, secondo i relatori, a negare ai palestinesi la possibilità di essere soggetti della propria storia.
Palermo. Le sedie disponibili sono tutte occupate e molta gente rimane in piedi; il brusio di fondo si placa quando Jamil El Sadi, moderatore e voce di Our Voice, prende la parola.
Si coglie emozione, ma anche determinazione.
«Quest'anno i Talk affrontano temi urgenti e impellenti, come il genocidio in Palestina (tema di questa serata), i diritti delle persone, la violenza di genere e la lotta alle organizzazioni mafiose, affiancati da laboratori creativi che coinvolgono tutti e tutte, anche i più piccoli e le più piccole, perché per Our Voice, per la nostra realtà, la resistenza è felicità, è un gioco, è gioia e quindi è immaginazione ed è anche cura.
L'edizione scorsa ci ha insegnato tanto, ci ha insegnato quanto sia difficile costruire qualcosa di inclusivo e radicale allo stesso tempo, ma anche quanto sia potente creare legami, connessioni e reti di solidarietà.
Oggi quindi raccogliamo un po' quella eredità e la rilanciamo, mettendoci ancora una volta tutti noi stessi».
E conclude: «Prima di iniziare, quindi di invitare gli ospiti sul palco, ci tenevo a fare un'ultima premessa e poi veramente mi taccio.
Questa non è solo una nuova edizione di Resistenze, è il risultato di mesi di lavoro collettivo», rivendicando la natura della rassegna: intreccio di arte, attivismo e politica, capace di trasformare sogni in strumenti concreti di cambiamento.
Il collegamento con gli Stati Uniti porta in sala la voce di Mohamed El-Kurd, poeta e giornalista di Sheikh Jarrah.
La sua famiglia ha subito in prima persona le occupazioni dei coloni; la sua militanza lo ha reso, negli anni, uno dei volti più ascoltati della nuova generazione palestinese.
Nel 2021 è entrato nella lista Time 100 delle persone più influenti al mondo, e i suoi libri hanno contribuito a decostruire le narrazioni mainstream.
Jamil lo introduce con rispetto: «Mohamed, il tuo libro Vittime perfette è arrivato anche in Italia. Perché questo titolo? E quanto è pericoloso, per un popolo oppresso, dover sembrare “vittima perfetta” per essere ascoltato?».
El-Kurd prende tempo, poi affonda: «Il concetto di vittima perfetta è una trappola. Ti chiedono di aderire a standard impossibili: devi essere sempre civile, sempre educato, sempre vittima senza colpa.
Ma così il dibattito non riguarda più il colonialismo, il genocidio, il sionismo. Riguarda il tuo comportamento. È un ricatto che depoliticizza».
Poi la frase che resta sospesa nella sala, suscitando un applauso:
«Noi meritiamo dignità e libertà non perché siamo vittime innocenti o eroi morali. Meritiamo dignità perché siamo esseri umani.
I diritti umani non sono condizionati. Non c’è dolore abbastanza “pulito” da giustificare la nostra libertà».
Il primo a intervenire dopo Mohamed è Kareem Rohana, nato a Haifa, cresciuto in Italia fin dall’età di due anni, oggi logopedista e attivista, che ha trovato nei social lo spazio per raccontare la Palestina.
«Per parlare della mia terra ho dovuto costruire un canale che non c’era. Né nei media nazionali né in quelli locali.
Ho iniziato dai social, con il mio accento toscano e il lavoro in ospedale: mi presentavo come “palestinese modello”, incensurato, rassicurante.
Ma questa è una gabbia narrativa. Sei accettato solo se corrispondi all’immagine di palestinese per bene. È un ricatto che distoglie lo sguardo dal punto centrale: l’occupazione».
Un ragionamento che ricalca in pieno il discorso di El-Kurd sulla “perfezione minima necessaria” per poter essere accettabili.
Rohana cita il caso di Anas al-Sharif, giornalista assassinato e bollato come “uomo di Hamas”:
«Ho visto amici della Palestina correre a dire che non era di Hamas, quasi a volerlo salvare dall’accusa.
Ma questo è già accettare la logica dell’oppressore: anche se fosse stato di Hamas, la sua uccisione non sarebbe stata legittima.
E qui bisogna dire: dentro un campo di concentramento non ci sono bersagli legittimi».
A raccogliere il filo è Leila Belhadj Mohamed, giornalista italo-tunisina, che prende la parola con forza:
«Non posso che iniziare ricordando gli oltre 250 colleghi massacrati a Gaza. Senza di loro, oggi, non sapremmo nulla di ciò che accade».
La sua analisi punta al cuore della narrazione occidentale:
«Nei nostri giornali domina una grammatica della deumanizzazione. Si usa la voce passiva: “sono morti” i palestinesi, senza mai dire chi li ha uccisi.
I fixer, giornalisti locali che rischiano la vita, sono trattati come comparse. E le seconde generazioni, quelle che potrebbero raccontare con doppia prospettiva, restano invisibili».
Leila sottolinea come questa distorsione produca conseguenze profonde:
«Quando raccontiamo la Palestina solo attraverso pietà o tragedie, cancelliamo la sua complessità.
La società palestinese non è fatta solo di vittime: ci sono resistenze culturali, politiche, quotidiane.
E tutte meritano la stessa dignità. Pretendere una narrazione pulita, comoda per l’Europa, è ancora una volta un atto coloniale».
C’è anche una critica diretta al giornalismo-spettacolo:
«Non è mostrando il corpo dilaniato di un bambino che capiamo davvero la Palestina.
È un errore fermarsi alle immagini shock, perché l’attenzione si consuma, diventa abitudine.
Il nostro compito non è collezionare dolore, ma restituire voce. Raccontare contesto, dare strumenti, non solo pietà a tempo determinato».
Donne, bambini, uomini: la gerarchia della pietà
A questo punto il moderatore rilancia.
Jamil legge un passo del libro di El-Kurd e lo provoca: «Perché nei media si insiste sempre su “donne e bambini”?
E cosa significa per un popolo oppresso vedersi riconosciuto solo in questa forma di vittima?».
El-Kurd non si tira indietro.
«È vero, si parla sempre di “donne e bambini”. È una narrazione che sembra empatica, ma in realtà è tossica.
Perché toglie loro il ruolo politico e rivoluzionario.
Nella Prima e nella Seconda Intifada, così come nella sollevazione del 2021, le donne hanno guidato i movimenti.
Ridurle a vittime innocenti è cancellarne la forza politica.
E lo stesso vale per i bambini: andare a scuola sotto occupazione è già un atto di resistenza.
Non sono solo vittime passive».
Poi alza il tono:
«Questa iperenfatizzazione della descrizione dei palestinesi come donne e bambini cancella completamente gli uomini, che di fatto vengono considerati quasi come veri e propri morituri.
È come se tutti gli uomini fossero combattenti e dunque legittimati a morire.
In realtà, uomini, donne, bambini, medici, giornalisti: tutti fanno parte dello stesso tessuto sociale, condividono la stessa storia e aspirazioni.
Ma i media occidentali separano queste categorie e frammentano ulteriormente la comunità palestinese».
Kareem Rohana riprende la parola con un esempio dal contesto italiano:
«Durante una manifestazione a Firenze un vecchino ha fatto volare un deltaplano con i colori della pace.
I media l’hanno trasformato in “omaggio ad Hamas”. Una bugia tossica. È così che funziona: ogni gesto palestinese viene criminalizzato, ogni simbolo distorto».
E aggiunge:
«In Italia, intanto, arrivano soldati israeliani in vacanza, scortati, accolti come civili.
Ma in un Paese dove la leva è obbligatoria e le armi circolano ovunque, ha senso parlare di “civili” come se niente fosse?
È la doppia morale che decide chi è vittima e chi no».
Il diritto internazionale tra doppi standard e applicazione selettiva
Ricollegandosi ai temi di narrazione e doppi standard, Kareem Rohana sposta l’attenzione sul modo in cui i media incorniciano gli eventi.
«La “cornice totale” del 7 ottobre viene usata per schiacciare tutto su un’unica lettura: ciò che riguarda Israele/IDF viene spesso normalizzato — soldati in viaggio presentati come turisti — mentre alla controparte si appiccica un’etichetta onnicomprensiva: “tutto è Hamas”.
È lo stesso meccanismo visto altrove: semplificare, depoliticizzare, disumanizzare».
Da qui il tema dei simboli e delle distorsioni informative.
«Prendete il deltaplano a Calenzano: un gesto pacifista con i colori della pace rilanciato come “tributo al 7 ottobre”.
Non è un dettaglio: la selezione delle immagini orienta il pubblico e polarizza il dibattito».
Rohana richiama anche il terreno delle piazze:
«Penso alla manifestazione del 22 settembre tra Firenze e Calenzano, passata davanti a Leonardo: grande, non violenta, definita “resistenza pacifica”.
Se non distingui simboli, gruppi e individui, finisci per criminalizzare tutto».
A questo punto il discorso si intreccia con l’intervento di Leila Belhadj Mohamed, che riporta il focus sul diritto internazionale.
«Il problema non è il diritto in sé — spiega — ma la sua applicazione selettiva e un’architettura istituzionale che va riformata: ONU, CPI, cooperazione di polizia.
Demolire il diritto significherebbe consegnarsi all’anarchia dei più forti; ciò che serve è renderlo esigibile e vincolante».
Leila apre anche un capitolo di coerenza:
«Perché alcuni cittadini che combattono all’estero — compresi i doppi cittadini — sono perseguiti come foreign fighters e altri no?
Le regole valgono per tutti o no?».
A collegare norme e società, sottolinea, è la mobilitazione pubblica:
«La pressione sociale rafforza il lavoro dei giuristi e legittima processi e sanzioni».
In questo solco richiama il lavoro di Francesca Albanese, che «ha riportato il linguaggio del diritto a portata di persone senza perdere rigore».
Il passaggio finale torna al lessico e alla responsabilità editoriale:
«Se vogliamo che il diritto pesi — concludono i relatori — il giornalismo deve nominare fatti e soggetti con precisione, evitare etichette-totem e ricostruire cause ed effetti.
Solo così si separano i simboli dai fatti e le appartenenze dalle responsabilità individuali».
Un invito che prepara la chiusura della serata: rifiutare gerarchie etniche del valore delle vite e ribadire un paradigma universalista dei diritti.
Servono molte voci e istituzioni riformate, per separare simboli e fatti, appartenenze e responsabilità individuali.
La serata — corale per toni e accenti — ha chiesto un lessico preciso: nominare i soggetti, spiegare i contesti, evitare la spettacolarizzazione del dolore.
Ai media, ricostruire cause ed effetti e attribuire responsabilità con rigore, restituendo profondità storica alle cronache.
Alla politica, coerenza: trasformare l’uguaglianza dei diritti in scelte concrete.
Alla società civile, continuare a tessere reti e difendere gli spazi democratici del dissenso.
Oltre la gabbia delle “vittime perfette”, il terreno comune resta la dignità umana e la possibilità di un futuro giusto per tutte e tutti.
Il messaggio che arriva da Palermo è netto: non chiedete ai palestinesi di essere “perfetti” per avere diritti. Chiedete — e praticate — giustizia.