Resistenzə Il ruolo dell’arte come strumento di lotta politica
Di Noemi Carchedi e Gennaro Scotti
Come può l’arte essere un mezzo di trasformazione della società e mettersi di traverso ai regimi dittatoriali, diventando uno strumento per rompere lo status quo? Ne abbiamo parlato durante la quarta e ultima giornata della rassegna “Resistenz3”, firmata Our Voice, che si è tenuta il 29 settembre. Durante il dibattito si è posto l’accento su come l’arte possa esprimere dissenso e sensibilizzare le masse, affrontando tematiche scomode e mettendosi al servizio della lotta sociale.
Ad aprire l’evento è stata una performance artistica improvvisata dai partecipanti del workshop “teatro dell’oppresso”, tenutosi sotto la guida della regista Preziosa Salatino. Questa metodologia di teatro sociale è molto dinamica e interattiva, lavora sui conflitti e mette in scena tematiche sociali.
A performance ultimata, la relatrice Julieta Jimena, attivista di Our Voice, ha invitato gli ospiti Trisha Palma, Davide Dormino e José Luis Ledesma a sedersi sul palco, ricordando un attore che ha segnato la storia e la vita di Palermo, Maurizio Bologna, venuto a mancare la settimana prima. Maurizio, infatti, visse gli anni delle stragi e, attraverso la sua arte, non smise mai di denunciare la mafia e la corruzione. È stato fonte di ispirazione per tanti giovani artisti e artiste che immaginano un mondo diverso e vogliono rimanere liberi di vivere la propria arte.
Il primo ospite a cui viene data la parola è Davide Dormino, artista, scultore e insegnante della RUFA, accademia di belle arti di Roma. Davide ha realizzato un’installazione raffigurante gli occhi di Shirin Abu Akleh, giornalista palestinese uccisa dall’esercito israeliano nel 2022. Julietta ha chiesto all’artista di raccontare il processo creativo che vive e attraverso cui le sue opere vengono realizzate. “Il processo creativo, per ciò che mi riguarda, è cercare di stare in ascolto del mondo che mi circonda e degli esseri umani con le loro contraddizioni”, sostiene Davide e sottolinea l’importanza di rendere l’arte accessibile a tutti, perché è una fonte di risveglio delle coscienze, porta a riflettere e incide sul nostro immaginario.
Julieta si rivolge poi a Trisha Palma, una street artist napoletana che ha realizzato numerose opere rappresentando volti noti come Julian Assange e Michela Murgia, ma anche quelli di bambini palestinesi e popolazioni indigene del Latino America. “Da quando stavo al liceo, mi sono sempre interessata ai nativi e agli indigeni perché ho sempre pensato che il primo grande genocidio, dei nativi americani, non è mai stato ricordato abbastanza”, racconta Trisha. Con il tempo e accrescendo le sue conoscenze, si è dedicata anche ad altri temi, realizzando ad esempio il murale per Julian Assange a Scampia o il murale a Pianura raffigurante una bambina, conosciuta a Betlemme, che disegna la bandiera della Palestina. L’idea di portare l’arte nelle aree periferiche sottintende l’intento di riqualificare il territorio, portando l’attenzione su tematiche sociali e politiche. “L'arte urbana, in particolare i murales, è più adeguata alle periferie, perché quando si parla di Napoli si parla sempre del centro e mai della periferia. Se si parla di periferia, se ne parla sempre male e non si vede mai ciò che c'è di bello”, sostiene l’artista.
Inoltre, Trisha racconta che, di recente, il volto della bambina palestinese sul murale è stato vandalizzato. “A primo impatto ci sono rimasta male, però poi ho capito che in realtà stava dando fastidio a qualcuno e quindi è quello lo scopo, secondo me, dell'arte. Dare fastidio in un certo senso, altrimenti è solo decorazione”, conclude l’artista.
Un altro mezzo artistico importante è la fotografia. La capacità di una fotografia di congelare un istante o, ad esempio, un momento storico, rende possibile tramandare di generazione in generazione gli eventi passati. La parola viene data a José Luis Ledesma, giornalista e fotoreporter italo-argentino che è riuscito a catturare momenti di un periodo molto difficile per l’Argentina, ovvero l’inizio della dittatura. Tra il 1976 e il 1981, Jorge Videla è stato il 42º presidente dell'Argentina durante il regime militare noto come Processo di riorganizzazione nazionale ed è stato responsabile di crimini contro l'umanità e dell'omicidio dei desaparecidos. Durante questo periodo, chiunque si opponesse al regime totalitario veniva brutalmente torturato e tra questi vi erano molti ragazzi, artisti, studenti, musicisti e giornalisti. Ancora oggi moltissimi torturatori sono rimasti impuniti e tanti sono sfuggiti alla giustizia argentina scappando in Europa. Julietta ha chiesto a José Luis di raccontare, attraverso la sua esperienza, il motivo per cui le foto e l’arte rappresentassero una minaccia per le dittature.
“Lavoravo per un giornale, un quotidiano, che ancora esiste, si chiama ‘Cronaca’, però come tutti i giornali dell’epoca erano filogovernativi, quindi o lavoravi lì e non dicevi niente, o andavi via”, racconta il fotografo. Infatti, le sue fotografie, completamente inedite, furono scattate all’interno del contesto civico-militare in cui lavorava in Argentina. “Non potevo estrarre questo materiale perché apparteneva all’editoria, ma prima di andare via ho avuto modo di prendere alcuni negativi e li ho tenuti nel cassetto per una quarantina di anni”, sostiene José Luis. Solo di recente un gallerista estone gli ha proposto di realizzare una mostra, l'anno prossimo, al Mona Museum of Art di Parnu e l’uscita di un libro in cui si racconta la sua particolare storia.
“L'immagine, l'immagine artistica, l'immagine fotografica, in tutti i periodi, ha dato fastidio al regime neototalitarista e a tutti i governi dittatoriali”, perché le arti visive rappresentavano un mezzo di diffusione della verità e quindi erano scomode al potere. Proprio come sta accadendo oggi nella striscia di Gaza, la stampa fa gli interessi internazionali intaccando la realtà evidente delle cose che stanno accadendo nel mondo. All’epoca di Videla, era conveniente non accusare il Governo, anche negli interessi degli stessi governi europei, compresa l'Italia. “In quegli anni, ho avuto la fortuna di conoscere Italo Moretti, che era il corrispondente dell’Italia per la RAI. Lui mi diceva che mandava il materiale in RAI, ma che non veniva mandato in onda”, sostiene José Luis.
Nel ‘78, quando c’era il campionato del mondo, c'era uno slogan che diceva “los argentinos somos derechos y humanos” e giocava sul doppio senso delle parole. “In questo periodo continuavano a scomparire persone buttate dagli aerei, uccidevano i bambini, facevano scomparire all'ESMA; era in moto il piano Condor, che radunava non solamente l'Argentina, ma anche il Cile di Pinochet, il Paraguay di Stroessner, l'Uruguay e il Brasile. Un gruppo di paramilitari si trasferiva all’estero per uccidere coloro che si opponevano. È successo tutto questo e io l’ho documentato”, racconta José Luis. Erano 10 fotografi al mattino, 10 al pomeriggio e 10 alla sera che si interscambiavano; andavano nei luoghi comunicati, dove le persone erano appena morte, per fotografare l’accaduto. Il Governo mentiva e raccontava loro false versioni, tacendo le esecuzioni e gli omicidi che commetteva.
Allora in Argentina, come oggi in Palestina, dove la propaganda sostiene che Israele stia combattendo il terrorismo di Hamas e Netanyahu afferma che persino i bambini palestinesi, così come tutti i civili, ne facciano parte e debbano morire. Viene occultata la verità e moltissimi giornalisti sono stati uccisi mentre documentavano l’atroce genocidio che si sta consumando.
José Luis racconta del 14 settembre 1980, quando i suoi 3 colleghi partirono al posto suo e morirono in un attentato archiviato come incidente aereo. “L’aereo decollò e scoppiò in aria. Io sono convinto che sia stato un attentato delle forze militari perché uno di loro, Rodríguez, questo ragazzo che aveva la mia età, forse 27 anni, 25, era un attivista di sinistra. Gli altri no, erano lavoratori come noi, come me”.
“Tutti i governi tentano di pilotare l'arte o la fotografia”, conclude José Luis, e lo fanno a convenienza dei loro interessi. Cercano di sopprimere il dissenso e di eliminare le teste pensanti, così da poter controllare meglio le masse.
Julieta sposta poi l’attenzione sui bambini e sul ruolo che possono giocare nel cambiamento, che può e deve iniziare da loro. Si rivolge quindi a Davide Dormino, che ha realizzato un’installazione intitolata “Quando il bambino era bambino”. “Il disegno è lo strumento per eccellenza dell'immaginazione”, sostiene Davide; infatti, il disegno è la prima cosa che si impara da bambini. Il tema dell’infanzia alla base dell’installazione realizzata da Davide risiede nella capacità dei bambini di ascoltare e nel loro sguardo. “Per i bambini tutto è possibile. E io penso che in questo momento storico, che va avanti già da un po', stiamo perdendo la capacità di usare il nostro immaginario per impattare la realtà”, sostiene lo scultore. L’educazione dei bambini è fondamentale per educarli a tenere accesi e vivi i loro sogni, puri come durante l’infanzia. Come sostiene Julieta, è un atto di resistenza mantenere la purezza infantile e la libertà, anche se questo comporta non adattarsi al sistema e sentirsi esclusi.
L'arte, come sostiene Davide, è come una sonda che scava in profondità e va a indagare le emozioni e i traumi, facendo luce, con la ricerca, su fenomeni che altrimenti rimarrebbero inesplorati. Il giornalismo investigativo e l’arte militante sono strettamente collegate dalle domande scomode che pongono. Tutte le forme artistiche sono memorie che resistono al tempo e cercano di ricordarci gli errori del passato che non dovremmo più ripetere. Come sostiene però José Luis, “purtroppo l'essere umano ancora non impara al 100%” e l’assenza di molte verità porta la storia a ripetersi.
L’artista deve anche valutare, sempre attentamente, che tipo di lavori gli vengono commissionati per rimanere integro, tenere fede ai suoi valori e non vendersi accettando compromessi. “La cosa più rivoluzionaria che può fare un artista? Essere se stesso. Basta non tradire i propri principi”, sostiene Davide Dormino.
Infine, i partecipanti convengono nell’idea che l’arte sia per tutti e che anche chi non possiede un dono artistico possa comunque tramandare un messaggio attraverso l’arte. Non è importante l’età che si ha; si è sempre in tempo per imparare dall’arte.