
Un primo approccio al transfemminismo decoloniale e alla necessità di porre in atto pratiche trasformative.
Il terzo panel della rassegna culturale Resistenz3, con ospiti l’attivista italo-iraniana Marina Misaghinejad, la scrittrice Naomi Kelechi di Meo e Francesca Barbino (referente della campagna Piacere di Conoscerci), ci lascia con una profonda riflessione su ciò che plasma il nostro vivere collettivo, e in particolare sulla necessità di ridisegnare cosa sia, davvero, il sapere.
Uno degli eventi che marca questo inizio del XXI secolo, e che si afferma da diversi anni, è il movimento dei femminismi di politica decoloniale nel mondo. Questa corrente ha sviluppato una moltitudine di pratiche, di esperienze e di teorie; le più incoraggianti e originali sono dei movimenti sul campo che affrontano le questioni in modo trasversale e intersezionale. Senza sorpresa, questo movimento provoca la reazione violenta degli eteropatriarchi, delle femministe del Nord e dei governi. È nel Sud globale che questo movimento si è sviluppato riattivando la memoria delle lotte femministe precedenti, mai perdute perché mai abbandonate nonostante i terribili assalti nei loro confronti.
Come presentato da Marina, «quando parliamo di transfemminismo decoloniale, parliamo di tutta una serie di pratiche radicali che mettono in discussione quella che è una visione prettamente euro-centrica e che vuole raccontare le donne, anche quelle provenienti da altri luoghi, in un modo monolitico».
Femminismo decoloniale significa anche «prendersi la responsabilità e volontà, non solo di dare spazio, o di lasciare parzialmente uno spazio a persone socializzate donne che portano esperienze altre, significa creare degli spazi di confronto reali, nei quali demolire tutta una serie di convinzioni, e prassi che abbiamo dato per scontato in modo scientifico e rivedere totalmente il modo di fare femminismo insieme.
Dobbiamo necessariamente adottare questo approccio dal momento in cui, colonizzare il femminismo in questi anni, ha portato a dare per scontato che la genealogia femminista fosse in qualche modo parte di un sistema accademico prettamente europeo, ignorando, ad esempio, tutte le altre genealogie, e pretendendo un’universitalità anche in contesti lontanamente simili, o affatto simili».
Dunque, in seno a questo sistema moderno-coloniale, nel corso della storia dei femminismi del XX secolo, solo le donne bianche e borghesi sono considerate come donne, ponendo la femminilità bianca come paradigma universale per condurre una lotta contro l’oppressione – una lotta che non ha tuttavia messo in questione nessun altro tipo di oppressione di genere e che ha costruito la propria agenda politica su questa specifica categoria di donna in difesa degli interessi borghesi.
«Il transfemminismo lotta principalmente per la libertà personale delle persone socializzate donne. Nel momento in cui, io, femminista, universalizzo il concetto di libertà, di fatto, colonizzo una pratica, una teoria, e in questo senso impongo in un qualche modo una mia visione di libertà o su come dovrebbe essere vissuta una libertà dalle persone socializzate donne.»

La politologa e attivista francese Francoise Vergés, nel suo libro “Un femminismo decoloniale”, ci pone dinanzi la necessità di leggere le dinamiche di oppressione patriarcali, come dinamiche profondamente connesse al sistema capitalista (a sua volta storicamente connesso allo schiavismo) e al neoliberismo.
Naomi, scegliendo di dare voce all’esperienza di sua madre e di molte donne afro-discendenti, ci racconta di come questa esperienza sia marcata da una sofferenza che tocca la sessualizzazione, l’oggettificazione, e l’estraniazione in quanto donna emigrante, e in quanto donna.
«Lo stesso ambiente lavorativo, quando sarebbe potuto essere un luogo di confronto con le altre colleghe, si trasformava in un’ulteriore incomprensione della sua situazione di donna madre, single e con dei bambini da crescere. Il suo lavoro di cura veniva identificato, a priori, come “stancante”, partendo da una presunzione di lavoro fortemente patriarcale. Ma in realtà, non tutte le donne sono uguali, non tutte le esperienze e i contesti sono uguali».
Soprattutto, vorrei sottolineare, che «nel contesto occidentale, all’interno di quello che sono stati gli scritti femministi, ciò che ha sempre definito quella che era la libertà di una donna era ciò che poteva fare in base a quello che un uomo poteva fare. Non è stato mai preso in considerazione quello che era l’ambiente, il corpo e il contesto femminile di donna indipendentemente da ciò che è un uomo.
Sicuramente questo è necessario per individuare e riconoscere le violenze esercitate e i diritti di cui veniamo private, ma al di là di pensare tra i concetti patriarcali, il contesto liberatorio della donna è sempre stato descritto, anche sui manuali dei studi di genere, come un contesto che si “emancipa allontanandosi” dalla cucina, casa, dai figli.
Sicuramente per molte è essenziale, ma ad esempio, per le donne migranti che lavoravano nei campi di cotone in America (così come alcune altre professioni oggi presenti), quello stesso contesto, paradossalmente, è un contesto in cui potevano sentirsi libere, perché sottratte delle dinamiche del sistema capitalista, o dalla sottomissione ad altre donne borghesi. Questo, quindi, è un esempio che porto, per mettere in discussione ciò che è sempre stato definito come libertà, o come buon esempio di femminismo, o pensato come buon esempio di donna libera.
Liberarsi da questa prigione, potrebbe significare provare a riscrivere un immaginario totalmente diverso. Uno scenario che in primis parte della decostruzione di tutto quello che sappiamo, che potrebbe attingere alle culture pre-coloniale, e che ci permetterebbe di immaginare un tipo di libertà che sia lontano da quello che ci è sempre stato imposto o delineato e partire da lì.
So che è difficile immaginarlo, anche perché vivere in un sistema violento non ti permette di immaginare una via nuova possibile, lontana da ciò che esiste, lontana da un sistema capitalista che sfrutta il corpo, e che violenta in varie forme.
Una delle chiavi potrebbe essere questa.»
In Sorella Outsider. Gli scritti politici, Audre Lorde ci ricorda che la forza delle donne sta nel riconoscere che le differenze tra noi sono creative, e nel resistere a quelle distorsioni che abbiamo ereditato, non per colpa nostra, ma ora sta a noi cambiarle. Le rabbie delle donne possono portarci a conoscere le differenze, e a trasformarle in potere. Perché la rabbia tra pari genera il cambiamento, non la distruzione, e il disagio e il senso di perdita che spesso causa non sono fatali, sono segni di crescita.

Francesca, referente del progetto Piacere di conoscerci, ci invita a considerare una nuova pedagogia che ci invita a estirpare le proprie radici patriarcali, educando al rispetto, al consenso, e alla conoscenza del proprio corpo.
«In quelle poche possibilità che vi sono di insegnamento dell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole, limitarsi alla trattazione della prospettiva del benessere-salute, è qualcosa di insufficiente. Parlare di relazioni, di consenso, di mascolinità, di culture e quindi anche di come il concetto stesso di sessualità viene percepito in maniera diversa è qualcosa che deve necessariamente accompagnare l’educazione scolastica.
Ci sono organismi che da almeno quindici anni trattano anche di decolonizzare questi temi, purtroppo però nel nostro Paese non è neppure presente nei programmi scolastici.
E in un sistema in cui la scuola stessa ripropone meccanismi patriarcali o eteronormati, fortemente eurocentrici, educare all’affettività e alla sessualità non solo risulterebbe uno strumento di prevenzione alla violenza di genere ma permettere di smantellare un sistema in cui la violenza è ormai stratificata.»
Il recente emendamento della Lega al ddl Valditara, a prima firma di Giorgia Latini e con Relatore Rossano Sasso, vieta l’educazione su tutti i temi relativi alla sessualità anche nelle scuole medie oltre che nelle primarie. Per quanto riguarda le scuole superiori, l'insegnamento resta facoltativo ed extracurriculare, la cui partecipazione di student3 è concessa solo dopo consenso preventivo dei genitori.
Alla base del provvedimento vi sono dichiarazioni come “Misura di totale buonsenso contro chi in questi anni è entrato nelle classi per parlare di utero in affito, pillola abortiva, cambio sesso e favole gay” (Jacopo Coghe, portavoce dei Pro Vita).
Disinformazione, stigmatizzazione del sesso come un pericolo o una vergogna, e gli svilenti stereotipi riguardanti genere e relazioni, tornarno a dettare legge sul futuro di una generazione.
L’importanza di programmi mirati, già dalle scuole primarie, permetterebbe all3 bambin3 di comprendere il concetto di consenso, del valore del “sì” e soprattutto dell’accettazione pacifica dei “no” , prevenendo fenomeni di violenza che si manifestano sempre più precocemente e colpiscono sempre più minorenni.
I dati delle survey di Fondazione Libellulla (2024) , ci mostrano come:
1 adolescente su 3 subisce violenza.
A più di un adolesce su dieci è successo di ricevere pugni e schiaffi dal/dalla partner.
Il 43% delle giovani donne ha subito e subisce regolarmente molestie verbali sul proprio corpo.
Sempre più giovani uomini della GenZ pensano che la violenza di genere non sia un loro problema (46,2% nel 2025) e si sentono discriminati dalla parità di genere.
A fronte di questo scenario, degne di attenzione sono state le parole di Marina:
«La frustrazione di vedere continuamente esercitata una violenza sui nostri corpi - soprattutto quando esercitata da ambienti che si riconoscono come istituzionali (siano essi la scuola, il parlamento, il tribunale) e che dovrebbero assicurare protezione e tutela-, ci ci porta ad organizzarsi dal basso, creare dei collettivi dove ci si sente al sicuro, dei gruppi di autocoscienza dove riconoscersi. Il substrato più spontaneo crea alleanze inedite, che effettivamente poi ti aiutano, sicuramente lo fanno più delle Istituzioni. »