
Via D’Amelio: il filo nero che conduce alla Cia nella destabilizzazione del nostro Paese

Via D’Amelio: il filo nero che conduce alla Cia nella destabilizzazione del nostro Paese
Ogni 19 luglio si piange Borsellino, ma quel giorno c’erano uomini dello Stato, non per fermare la strage, ma per far sparire la verità.
Trentatré anni dopo via d’Amelio è ancora in atto una campagna di depistaggio sulle verità dell’attentato in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina e Claudio Traina.
Nel mezzo del cordoglio ipocrita istituzionale, una verità emerge con chiarezza: si tenta di occultare quelle realtà indicibili nascoste all’interno dell’agenda rossa di Borsellino, trafugata in fretta e furia quel 19 luglio 1992 da uomini delle istituzioni nei momenti successivi alla strage.
“Dov’è l’agenda rossa?”. E soprattutto, “che cosa c’è scritto al suo interno?” chiede il direttore di ANTIMAFIADuemila, Giorgio Bongiovanni, aprendo il convegno “Strage Borsellino: tutta la verità!”. Un'occasione per riprendere il bandolo della matassa sulle stragi che ha visto il contributo di Salvatore Borsellino, Luigi de Magistris, Roberto Scarpinato, Fabio Repici, Saverio Lodato, Lorenzo Baldo e Anna Vinci.
Secondo Bongiovanni, Paolo Borsellino avrebbe potuto scrivere nell’agenda rossa elementi dirompenti, già noti in parte a Giovanni Falcone e a Saverio Lodato. In particolare, “la mente raffinatissima dell'attentato a Falcone si chiamava Bruno Contrada”. Avrebbe potuto contenere riferimenti su quanto Borsellino aveva già rivelato ai giornalisti francesi: “Marcello Dell'Utri è amico dei mafiosi”.
Infine, tra le possibili rivelazioni, ci sarebbero anche elementi legati all’eversione nera e ai servizi segreti nella bomba di Capaci: “Abbiamo scoperto nelle agende di Giovanni Falcone che c'era un'associazione clandestina criminale che si chiamava Gladio”, per cui “è ovvio che Paolo Borsellino avrebbe potuto scrivere anche di servizi segreti, eversione e 007 statunitensi”.
Ed è proprio qui che arriva il filone che conduce alla verità, una verità scomoda che questo governo tenta di occultare in ogni modo.
La commissione Parlamentare Antimafia tenta di depistare
Salvatore Borsellino, fratello del giudice e fondatore del Movimento delle Agende Rosse,
che ha più volte definito quel reperto “la scatola nera della strage di via d'Amelio”, ha denunciato come la commissione parlamentare Antimafia stia cercando di isolare la strage di via d’Amelio dal contesto più ampio delle stragi di Stato.
“Sta cercando di cancellare la responsabilità dell’eversione nera dell’amico della Presidente. Perché quello era Giacomo Giavardini”, ha affermato Borsellino, riferendosi a Chiara Colosimo, attuale presidente della Commissione parlamentare antimafia, mentre abbraccia Luigi Ciavardini, ex esponente neofascista condannato in via definitiva per la strage di Bologna, per l’omicidio del magistrato Mario Amato e del poliziotto Francesco Evangelista.
Non è un caso che la tesi della Commissione sia tenuta in ostaggio dal burattinaio Mario Mori, ex comandante del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri) ed ex direttore del SISDE, indagato dalla Procura di Firenze nel procedimento sulle presunte complicità esterne alle stragi mafiose del 1993. E non è ancora un caso che la stessa commissione si sia posta l’obiettivo di sostenere una lettura “mafiocentrica” dell’attentato a Borsellino e delle stragi, minimizzando le piste dei mandanti esterni e concentrandosi sulla teoria del movente “mafia-appalti”.
"I teorici della causale mafia-appalti per la strage di via d'Amelio sono gli stessi della pista palestinese sulla strage alla stazione di Bologna e non è un caso, non è per niente un caso, perché la riscrittura della storia che deve togliere i concorrenti esterni a Cosa Nostra per le stragi del '92-'93 ha lo stesso senso della riscrittura della storia per attribuire a sbandati anonimi palestinesi le bombe neofasciste, le bombe di Stato neofasciste della strategia della tensione", ha denunciato il senatore del Movimento 5 Stelle Roberto Scarpinato.
“Se noi esaminiamo questo atteggiamento politico, capirete che abbiamo la risposta alla mia domanda iniziale: si deve nascondere la storia del Paese”, ha commentato. Di concerto, il giornalista Saverio Lodato si è soffermato anche sul ruolo di Giorgia Meloni. “Una è la dichiarazione che fa (la presidente del Consiglio, ndr) rispetto alla strage di Bologna quando, a una domanda sull'esistenza di una pista nera, lei risponde: ‘E se i giudici si fossero sbagliati?’. Il secondo passaggio è imporre una signora apparentemente sconosciuta, Chiara Colosimo, come presidente di quella commissione, nonostante il suo rapporto con Ciavardini, condannato per la strage di Bologna”. Un’operazione politica, secondo Lodato, che non è stata affatto casuale.
Il tentativo chiaro è quello di occultare l’indicibile trama delle stragi che hanno insanguinato per anni la nostra Repubblica. “Se noi esaminiamo questo atteggiamento politico, capirete che abbiamo la risposta alla mia domanda iniziale: si deve nascondere la storia del Paese”.
Le trame dell’eversione nera
È a partire dalla pista dell’eversione nera che l’occultamento sugli attori esterni della strage si è fatto pressante, ma emergono nuovi elementi scottanti ed inequivocabili. L'avvocato Fabio Repici ha svelato un documento esplosivo. Una scoperta che getta nuova luce sulla figura dell'«amico che ha tradito Paolo Borsellino» e dà conferma di questi legami con le stragi mafiose.
Al centro della rivelazione c'è un verbale "sconosciuto a tutte le precedenti sentenze sulla strage di via d'Amelio", relativo a una riunione svoltasi a Palermo il 15 giugno 1992.
Un documento cruciale perché porta la firma di Paolo Borsellino su un'indagine riguardante la strage di Capaci.
Come ha sottolineato Repici nella sua memoria difensiva: "È davvero incredibile: esiste prova documentale che Borsellino fosse intervenuto in modo perentorio sull'avvio della collaborazione con la giustizia di Alberto Lo Cicero". Il magistrato aveva imposto che il confidente "avrebbe dovuto riferire nella prima fase esclusivamente alla Procura della Repubblica di Palermo".
Quando "gli uomini mafiosi che gestivano quel territorio avevano un politico molto molto molto vicino a loro e non era esattamente un comunista. Era uno che era stato arrestato insieme a Pierluigi Concutelli al poligono di Bello Lampo. Era Guido Lo Porto, amico di Paolo Borsellino".
"Paolo Borsellino, almeno l'1 giugno del '92, seppe che un suo amico era possibilmente colluso con i mafiosi che avevano ucciso Giovanni Falcone. Quale può essere stata la tempesta emotiva nell'animo di Paolo Borsellino? Una tempesta emotiva tale da farlo scoppiare in lacrime davanti a due giovani colleghi?", continua Repici, che poi punta il dito direttamente alla Commissione Parlamentare Antimafia.
"Ma di questo alla Presidente Colosimo non interessa niente? Perché Guido Lo Porto era un suo compagno di partito? Perché Guido Lo Porto era un esponente dell'estrema destra? E guardate che era esponente di quella destra della quale erano stati figli gli stragisti di Bologna".
Il ruolo dei servizi
Non è più possibile evitare i nomi, i fatti e le responsabilità. Dietro la sparizione dell'agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi durati decenni spuntano figure precise e inquietanti: Mario Mori, ex comandante del ROS ed ex direttore del SISDE, indagato per concorso nelle stragi del 1993; Bruno Contrada, ex capo della Mobile di Palermo, numero tre del SISDE e referente dei servizi in Sicilia, condannato a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa in via definitiva nel 2007 (il 7 luglio 2017 la sentenza è stata dichiarata dalla stessa Corte di Cassazione "ineseguibile e improduttiva di effetti penali”); Arnaldo La Barbera, ex questore di Palermo, risultato poi essere al soldo dei servizi, nonché colui che diede l’ordine di far sparire l’agenda rossa; Paolo Bellini, terrorista di estrema destra, condannato per la strage di Bologna e in missione in Sicilia a contatto con i mafiosi di Capaci sotto la supervisione proprio di Mori; e Federico Umberto D’Amato, direttore dell'Ufficio Affari Riservati (Uar) del Ministero dell'Interno dal 1971 al 1974 e uomo della CIA in Italia, in stretto rapporto con Angleton, capo dell’Agenzia dal 1954 al 1975.
Roberto Scarpinato non lascia spazio a equivoci: “Se l'agenda rossa viene sottratta pochi minuti dopo la strage, lo Stato è stato complice alla strage”, sottolineando che quei funzionari “sapevano che ci sarebbe stata la strage a quell'ora, in quel punto, e sono potuti intervenire per prelevare quell'indagine e farla sparire”. Parole che aprono la strada a quella che non può più essere considerata una teoria del complotto: dietro la strage non c’era solo la mafia, ma una regia occulta di apparati statali deviati.
È il paradosso italiano, più attuale che mai dopo l’entrata in vigore del decreto Sicurezza, quello in cui – denuncia Salvatore Borsellino – “ai servizi segreti viene data la possibilità di fare tutto quello che fino ad oggi hanno sempre fatto: attentati, assassini, associazioni sovversive e perfino mettersene alla testa”. L’impunità non è più un accidente: è diventata legge, pensata apposta “per pulire non solo il presente e il futuro, ma anche il passato”.
La scia che porta ai servizi segreti passa anche dalla storia nera del dopoguerra. Saverio Lodato ricorda come “D’Amato lavorava a stretto contatto con Angleton, capo della CIA in Italia, in nome di quell’anticomunismo che ha cementato servizi, potere e istituzioni”, lasciando aperti i filoni dei legami tra apparati deviati, estrema destra e mafia.
Su un piano operativo, Fabio Repici racconta il legame inquietante tra Paolo Bellini e il generale Mario Mori: “Bellini, condannato per la strage di Bologna, nel 1992 era in missione in Sicilia a contatto con i mafiosi che facevano la strage di Capaci. E il supervisore di quella missione era proprio Mario Mori. È come in un film dei Blues Brothers”. E quando il maresciallo Roberto Tempesta consegna a Mori un biglietto con i nomi di cinque capimafia, “il generale lo butta via: nessun fascicolo, nessuna indagine, solo silenzio”.
Giorgio Bongiovanni taglia corto e sposta l’attenzione su ciò che è rimasto spesso nell’ombra: “Nelle stragi di Capaci, via d’Amelio e del continente c’erano gli apparati dei servizi italiani, ma non erano italiani: erano quelli degli Stati Uniti d’America”, facendo intendere come le stragi siano state eterodirette da oltre Atlantico.
Chiude Luigi de Magistris con una sintesi puntuale: “La strage venne compiuta da neofascisti con l’appoggio dei servizi. L’esplosivo arrivava da un deposito sotto il controllo della NATO”. È ancora più chiaro il quadro se si ascolta Vinci Guerra, ex NAR, secondo cui loro erano “il braccio armato di apparati dello Stato e di enti sovranazionali, Nato e Stati Uniti, per impedire ogni cambiamento democratico nel Paese”.
A rileggere tutti questi tasselli, un punto fermo s’impone: le stragi che abbiamo chiamato "mafiose" sono state il teatro di una guerra sporca, dove Cosa Nostra era solo l’ultimo anello di una catena che conduceva direttamente ai vertici di servizi segreti, generali, questori, uomini delle istituzioni e alle stanze riservate della CIA in via Vittorio Veneto, sede dell’ambasciata USA a Roma. E se oggi aggiriamo ancora le macerie di via d’Amelio, è solo perché la verità vera — quella che svelerebbe nomi come Mori, Contrada, La Barbera, D’Amato e i loro mandanti americani — è ancora proibita. Ma ormai, chi vuole vedere, vede: le bombe di quella terribile stagione stragista non erano solo “cosa nostra”. Erano anche, e soprattutto, cosa loro.