Dalla “Marcha dos Povos” al fondo TFFF: come la COP30 in Amazzonia rivela il divario tra retorica climatica e distruzione reale dei territori.
A Belém, nel cuore dell’Amazzonia, il vertice sul clima si svolge dentro una contraddizione bruciante: mentre i governi si presentano come paladini dell’ecosistema, le popolazioni indigene riempiono le strade per denunciare trivellazioni, megaprogetti e la trasformazione della foresta in merce finanziaria. La “Marcha dos Povos” del 17 novembre, con circa 70.000 persone in corteo, è l’immagine più limpida di questo conflitto: da una parte chi difende la foresta con il proprio corpo, dall’altra un sistema che continua a sacrificarla al profitto. Le loro richieste – giustizia climatica, tutela dei territori, fine dell’espansione fossile – non riguardano solo il Brasile: parlano anche a noi, in Europa, chiamati a scegliere se restare complici o schierarci al fianco di chi difende la possibilità stessa di un futuro vivibile.
Il 17 novembre, a Belém, il protagonista non è stato il volto levigato dei padiglioni con l’aria condizionata e dei discorsi calibrati, ma quello del grande corteo che ha attraversato la città: popoli indigeni, comunità amazzoniche, giovani, movimenti sociali riuniti nella “Marcha dos Povos” per affermare con chiarezza che non c’è futuro per il clima se la foresta continua a essere sacrificata al profitto. Barche risalite dai fiumi con famiglie intere a bordo, maschere di animali, serpenti di stoffa lunghissimi con cuciti sopra messaggi di giustizia climatica, cartelli che ricordano che “i soldi non si mangiano”: è questo il paesaggio della protesta. Sono proprio le popolazioni indigene a vivere in prima linea la devastazione ambientale ed è da loro che arriva l’appello più netto alla politica globale – smettete di giocare con le nostre vite.
Questa marcia è il punto di arrivo di un periodo di tensione crescente. Pochi giorni prima, un gruppo di attiviste e attivisti aveva forzato i varchi della zona più blindata della COP, la “Blue Zone”, tentando di entrare dove siedono capi di Stato, negoziatori e lobby dei combustibili fossili. La scena è, in un certo modo, esemplare: chi difende la Natura resta fuori, mentre chi la devasta ha il pass al collo.
Da quando è stato deciso che la COP30 si sarebbe tenuta proprio in Amazzonia, il governo brasiliano l’ha presentata come una “COP delle foreste”. Tuttavia, mentre si preparava il grande evento, nuove strade e infrastrutture hanno eroso ulteriori porzioni di verde intorno alla città. Un paradosso che i media locali hanno documentato bene: si devasta la foresta per organizzare il vertice che dovrebbe salvarla.
Nel frattempo i popoli indigeni si sono mossi con grande lucidità politica. Ad aprile, a Brasília, l’“Acampamento Terra Livre” ha riunito oltre 6.000 indigene e indigeni di circa 150 popoli da tutto il Paese, portando alla nascita di una Commissione indigena internazionale per la COP30, pensata per evitare che le comunità fossero confinate a un ruolo decorativo e per garantire loro uno spazio strutturale nel processo decisionale. Parallelamente, movimenti sociali, organizzazioni indigene e sindacati hanno costruito la Cúpula dos Povos, un percorso di confronto e di contro-vertice che ha coinvolto più di 1.100 organizzazioni provenienti da oltre 60 Paesi, e che è confluito in una piattaforma politica chiara: giustizia climatica, stop all’estrattivismo, demarcazione e difesa dei territori, finanziamenti diretti alle comunità che custodiscono la foresta.

Purtroppo però, nei giorni stessi in cui a Belém si discute di clima e foreste, nel sud del Brasile la violenza contro i popoli originari è esplosa ancora una volta. All’alba del 16 novembre, nella piccola comunità Guarani Kaiowá di Pyelito Kue, un insediamento indigeno nel Mato Grosso do Sul sorto su una porzione di terra ancestrale rioccupata dai Guarani, un commando di circa 20 uomini armati ha fatto irruzione sparando contro le famiglie: secondo quanto riportato da media e organizzazioni brasiliane, è stato ucciso il leader Vicente Fernandes Vilhalva, 36 anni, e almeno quattro persone sono rimaste ferite, tra cui una donna e due adolescenti. Le case e gli oggetti della comunità – una delle “retomadas” con cui i Guarani cercano di tornare a vivere sui propri territori tradizionali – sono stati incendiati e distrutti.
A denunciare l’attacco sono il CIMI – Consiglio Indigenista Missionario, organismo legato alla Chiesa cattolica che da decenni monitora e rende pubbliche le violenze contro i popoli indigeni, l’assemblea Aty Guasu, principale istanza politica tradizionale dei Guarani Kaiowá, e la Funai, la fondazione nazionale brasiliana incaricata di tutelare i diritti dei popoli indigeni. Tutte indicano la responsabilità di gruppi di sicari armati al soldo dei grandi proprietari terrieri dell’agrobusiness e inseriscono quanto accaduto in una lunga sequenza di aggressioni contro Pyelito Kue e nella più ampia storia di persecuzione dei Guarani Kaiowá, da anni costretti a vivere tra accampamenti ai bordi delle strade, minacce e omicidi impuniti. Mentre alla COP30 si discute di fondi e impegni per la tutela delle terre indigene, nei territori la contesa per la terra continua a essere pagata in sangue.
Quasi a voler rendere ancora più evidente la fragilità di questo equilibrio è arrivato, il 20 novembre, il grande incendio divampato nella Blue Zone della COP30. Nel primo pomeriggio, le fiamme sono partite in un’area tra i padiglioni nazionali del Parque da Cidade, costringendo le autorità a evacuare migliaia di delegati e giornalisti dal principale spazio negoziale del vertice.
Le immagini trasmesse dai media internazionali mostrano colonne di fumo alzarsi dalle strutture temporanee, sirene, persone che escono in fretta lasciando dietro di sé computer e documenti, squadre di vigili del fuoco al lavoro per contenere il rogo. Secondo le informazioni diffuse nelle ore successive, non si registrano feriti gravi: diverse persone sono state soccorse per inalazione di fumo, ma l’incendio è stato messo sotto controllo in tempi relativamente brevi e l’area, dopo i controlli di sicurezza, è stata in parte riaperta.
Le cause non sono ancora state chiarite: alcune ricostruzioni parlano di un possibile guasto a un generatore o di un corto circuito in una delle tribune, ma le autorità brasiliane non hanno ancora confermato quale sia stato l’innesco effettivo del rogo, e sono in corso accertamenti tecnici. Resta, però, la potenza simbolica di un vertice sul clima che prende fuoco proprio nel suo cuore negoziale, mentre al di fuori dei padiglioni le comunità che subiscono gli incendi reali – quelli che divorano foreste, case, fiumi e vite – continuano a chiedere misure concrete contro l’espansione fossile e la deforestazione.
Le contraddizioni del Brasile di Lula
Su questo scenario si innestano scelte politiche che gridano contraddizione. Il 20 ottobre 2025, poche settimane prima della COP, l’agenzia ambientale brasiliana (Ibama) ha concesso il via libera a nuove perforazioni petrolifere di Petrobras nell’area marina di fronte alla foce dell’Amazzonia, una regione delicatissima dal punto di vista ecologico. È una decisione difesa con entusiasmo dal ministro dell’Energia, Alexandre Silveira, che arriva a definire il margine equatoriale «il futuro della nostra sovranità energetica», assicurando uno sfruttamento «con totale responsabilità ambientale» e «benefici concreti per le brasiliane e i brasiliani».
È però il messaggio peggiore possibile nel momento in cui il Paese ospita il più importante vertice sul clima al mondo. Come ricorda l’agenzia Reuters, la rete di organizzazioni ambientaliste Observatorio do Clima parla apertamente di «sabotaggio» al vertice, annunciando ricorsi in tribunale per denunciare le illegalità e le carenze tecniche nel processo di autorizzazione.
Nello stesso tempo, Lula ha lanciato il fondo globale “Tropical Forests Forever Facility (TFFF)”, che mira a raccogliere fino a 125 miliardi di dollari per la protezione delle foreste tropicali: 25 miliardi da governi e filantropi, 100 dal settore privato, con il Brasile che si impegna a contribuire con almeno 1 miliardo di dollari. Apparente passo avanti, il TFFF rischia però di trasformare ancora una volta la foresta in prodotto finanziario gestito dall’alto, mentre chi vive nei territori continua a subire violenze, omicidi, sgomberi, avvelenamento di fiumi e suoli. È una nuova faccia del “biocapitalismo”: un meccanismo che continua a piegare la foresta alla logica del mercato più che a quella della difesa del clima.
È dentro questa contraddizione strutturale che si alza la voce dei popoli originari: non ha senso parlare di fondi “green” se, nello stesso momento, si autorizzano trivelle, miniere e megaprogetti che distruggono esattamente ciò che si afferma di voler salvare.
Dietro cortei, canti e rituali, le richieste sono molto precise. Le popolazioni indigene rivendicano innanzitutto il riconoscimento pieno e la tutela effettiva dei propri territori – così come di quelli quilombolas – perché è lì che la foresta ancora resiste e dove, ovunque i diritti territoriali siano garantiti, la deforestazione si riduce in modo significativo. Difendere queste terre significa anche porre un argine all’espansione dei combustibili fossili e alle grandi opere che lacerano fiumi, suoli e comunità: non esiste alcuna coerenza tra l’apertura di nuovi giacimenti petroliferi, miniere, infrastrutture invasive e le dichiarazioni solenni sulla transizione ecologica.
Al tempo stesso, le comunità rifiutano di essere l’ultimo, silenzioso anello nella catena dei finanziamenti climatici: chiedono che le risorse arrivino direttamente a chi abita e custodisce i territori, senza disperdersi nei meandri di banche, governi e intermediari lontani dalla realtà quotidiana dell’Amazzonia. Per dare sostanza alla parola “giustizia”, indicano una direzione precisa: far pagare il conto della crisi climatica a chi ha inquinato e guadagnato di più – grandi gruppi industriali, multinazionali, detentori di patrimoni enormi – invece di scaricare, ancora una volta, costi e sacrifici sulle popolazioni più vulnerabili.
Soprattutto, le popolazioni indigene chiedono di essere riconosciute come soggetti politici a pieno titolo: non più comparse folcloristiche da esibire nei vertici internazionali, ma interlocutori indispensabili nei luoghi in cui si decide del destino dell’Amazzonia e del clima globale. In definitiva, la loro richiesta è semplice e radicale: che la foresta, le loro vite e il futuro collettivo vengano finalmente posti al di sopra dei profitti.
Quello che accade a Belém non è un film lontano. Il nostro modello di consumo, gli accordi commerciali, gli investimenti finanziari europei sono intrecciati alla distruzione o alla difesa dell’Amazzonia. Fingere di essere spettatori esterni è una comoda illusione. La COP30 in Brasile è diventata il luogo in cui i popoli indigeni sfidano frontalmente l’ipocrisia del sistema climatico globale: quella per cui si può continuare a trivellare, estrarre, deforestare, purché si trovi un modo elegante di compensare, misurare, monetizzare.
È una vergogna intollerabile che nel 2025 questa logica sia ancora dominante. Se continuiamo così, il pianeta non sopravvive: non è allarmismo, è matematica della fisica e dell’ecologia. Ogni ettaro di foresta che cade, ogni nuovo giacimento autorizzato, spingono l’Amazzonia verso un punto di non ritorno in cui la foresta collassa e con lei il clima che rende abitabile la Terra. Le popolazioni indigene, oggi, non stanno difendendo solo “la loro” foresta: stanno difendendo una possibilità di futuro per tutte e tutti. Lo fanno mettendo in gioco la propria vita, mentre noi spesso ci limitiamo a guardare da lontano.
La domanda, a questo punto, è semplice e scomoda: da che parte scegliamo di stare? Con chi continua a impacchettare la devastazione ambientale sotto l’etichetta del progresso verde, o con chi difende la natura come condizione minima perché esista ancora un domani?
Non esiste neutralità. Sostenere la lotta delle popolazioni indigene significa difendere il diritto stesso a un futuro vivibile. Tutto il resto è complicità.