
Strage di Capaci quando il silenzio dello Stato diventa complicità con la mafia

Strage di Capaci: quando il silenzio dello Stato diventa complicità con la mafia
Di Matteo e Gratteri sfidano i bavagli del potere: «Vogliono zittirci, ma noi non arretriamo»
Il 23 maggio 2025, nel cuore di Napoli, in occasione del 33º anniversario della strage di Capaci, l’associazione Schierarsi ha riunito alcune tra le voci più autorevoli della lotta antimafia in un Teatro Totò gremito, luogo simbolo della cultura partenopea e della resistenza civile.
Non si è trattato di una semplice commemorazione, ma di un vero e proprio atto di denuncia contro le manovre politiche che mirano a limitare il potere investigativo della magistratura. A moderare l’incontro Alessandro Di Battista, ex deputato del M5S, attivista e membro dell’associazione Schierarsi, che ha rivolto al sostituto procuratore nazionale antimafia, Nino Di Matteo, una domanda cruciale: quanto si conosce davvero della verità sul biennio (1992-1993) stragista di mafia?
Di Matteo ha esordito lanciando un forte appello: “noi dobbiamo stare attenti dallo sterile esercizio retorico di cui spesso sono protagonisti quelli che in vita hanno combattuto, hanno criticato, hanno osteggiato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sono tanti e ci sono ancora. Fingono di onorare ma in realtà si schierano contro quei magistrati che cercano, anche modestamente, di seguire l'esempio di Giovanni Falcone”. Ha poi proseguito “oggi si pretende, si prescrive, che il magistrato può parlare delle vicende processuali soltanto dopo che la sentenza è passata in giudicato. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino spiegavano all'opinione pubblica che cosa stava venendo fuori dalle dichiarazioni di Tommaso Buscetta sulla struttura dell'Organizzazione Cosa Nostra ben prima che la sentenza del maxiprocesso fondata anche sulle dichiarazioni di Buscetta passasse in giudicato. E allora ricordiamoci che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, se fosse stata vigente la legge introdotta appunto dalle riforme Cartabia-Nordio, sarebbero stati al tempo sottoposti a procedimento disciplinare, almeno evitino di commemorarli.”
Sul tema, è intervenuto anche il procuratore Nicola Gratteri, che ha ricordato con amarezza quel periodo:”questa morte di Falcone mi ha molto sorpreso. Nella normalità, nella logica delle cose, non c'era motivo di uccidere Falcone e in quel modo. Perché Falcone all'epoca era direttore generale degli affari penali. Non faceva più il magistrato, era al ministero. Allora ricordo bene, prima ancora, parlando di Falcone, le amarezze. Falcone era un perdente nato, non sul piano investigativo, sul piano della sua vita. Quando si è candidato al CSM ha preso 51 voti, in un bacino elettorale di 500 voti della Corte d'Appello di Palermo. La verità è che è stato osteggiato all'interno della Magistratura. Proprio perché lui era un fuoriclasse.”
“Quando poi è iniziata la stagione delle commemorazioni, - ha continuato - io sono stato invitato in Sicilia una sera, e sono salito sul palco a parlare, e subito dopo di me sono saliti dei personaggi che in vita hanno ingiuriato, deriso – ovviamente sempre dietro le spalle – questi due grandi uomini. Cioè, sono saliti sul palco i gattopardi.”
Riflettendo sul valore della memoria, Di Matteo ha aggiunto: “noi intanto non possiamo dimenticare che è un episodio dei sette episodi di strage che si sono verificati tra il 1992 e il 23 gennaio 1994.”
Ha quindi denunciato l’attuale impostazione della Commissione parlamentare antimafia, colpevole di concentrarsi unicamente sulla strage di Via D’Amelio, approfondendo solo una pista (quella mafia-appalti), trascurando il contesto più ampio e ignorando il filo che lega tutte e sette le stragi. Il magistrato ha poi sottolineato con forza “noi, della strage di Capaci, di tutte le altre stragi, non è vero che non sappiamo niente. Sappiamo molto, sappiamo tanto da poter dire che ancora la verità non è completa. Proprio perché dai processi che si sono celebrati, dalle indagini, è venuta fuori sì la responsabilità degli uomini di Cosa Nostra, ma vengono fuori tanti, tanti concreti elementi che fanno ritenere che assieme agli uomini di Cosa Nostra, sia nella fase organizzativa, sia nella fase esecutiva, sia nella fase ideativa della strategia stragista, è probabile che ci fossero uomini esterni a Cosa Nostra.”
Riforme Nordio? «Ho spalle larghe e nervi d’acciaio»
Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha annunciato di voler predisporre un pacchetto di misure per avviare procedimenti disciplinari contro quei magistrati che criticano le sue riforme. A ricordarlo è stato il procuratore Nicola Gratteri, che ha risposto con tono provocatorio “speriamo che lo faccia, perché poi gli diremo anche il resto. Non ho questo problema, non mi faccio intimorire. Io sono andato avanti dall’89 a pane e veleno, ho spalle larghe e nervi d’acciaio. Tutte le riforme che stanno facendo sulla libertà di stampa e comunicazione servono solo per impedire ai cittadini di sapere cosa succede nei loro territori”.
Gratteri ha espresso tutto il suo disappunto verso l’intero impianto delle riforme varate dalla ministra Cartabia fino a oggi, sottolineando come “nulla hanno a che vedere con la velocizzazione del processo, nulla hanno a che vedere con la protezione e la tutela della parte offesa”.
“Ascoltando il dottor Gratteri si capisce perché l’allora presidente Napolitano (nel 2014 con il governo Renzi, ndr) si oppose alla sua nomina come ministro della Giustizia”, ha chiosato Alessandro Di Battista.
Dello stesso avviso è Nino Di Matteo, che ha affermato “personalmente, io, continuerò a parlare, non mi interessa la carriera, non mi è mai interessata la carriera, non ho problemi a dire quello che penso. Sento il dovere di dirlo e non può essere certo lo spauracchio di un procedimento disciplinare a indurmi, a comportarmi diversamente. Io ho visto i morti a terra. Io, come tanti altri magistrati che siamo entrati nel ’91-’92, ci siamo formati in quel tipo di clima. Io, mio malgrado, vivo da 33 anni con la scorta e dovrei stare attento a non incorrere nel procedimento disciplinare perché non posso spiegare ai cittadini qual è la mia opinione su queste riforme. Queste sono riforme che non servono al cittadino. Non c'è una riforma che renda più veloce il processo”.
Ha poi lanciato un avvertimento importante: “bisogna stare attenti a non esaminare le varie riforme approvate (limiti alle intercettazioni e abrogazione dell’abuso d’ufficio, per esempio) in questi anni o in corso di approvazione una ad una”.
Secondo il sostituto procuratore è necessaria una visione complessiva per cogliere la direzione verso cui sta andando la giustizia, ovvero “nella direzione della consacrazione di una giustizia a due velocità: una giustizia che magari sia efficace, rigorosa, funzionante per quello che riguarda la repressione dei reati degli ultimi della società e una giustizia con le armi spuntate per quanto riguarda invece i reati tipici del potere, dei colletti bianchi”.
“Da sempre – ha aggiunto Di Matteo – ma negli ultimi vent'anni ancora di più, mafia e corruzione sono due facce della stessa medaglia criminale. Oggi le mafie hanno definitivamente capito – definitivamente non lo so, perché non è sicuro che non si possa tornare a una strategia stragista di attacco frontale alle istituzioni – ma oggi le mafie, in questo momento storico, hanno capito che la violenza, il clamore, i delitti eccellenti non pagano quanto invece la possibilità di infiltrare, di condizionare la politica, le pubbliche amministrazioni, le grandi imprese attraverso il ricorso a fenomeni di corruzione. Quindi da questo punto di vista non facciamoci ingannare da quelli che ci dicono che noi non stiamo toccando la legislazione antimafia”.
Separazione delle carriere: un vecchio sogno della P2

Il procuratore palermitano ha ricordato un dato storico molto significativo: “la separazione delle carriere di Pubblici Ministeri e Giudici era al primo posto nella parte del Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli che riguardava la giustizia. Poi è stato il cavallo di battaglia del primo governo Berlusconi. Adesso ci stanno riuscendo. Che cosa vi dicono per convincervi che è necessario separare le carriere?”
La prima giustificazione è l’evitare un continuo scambio di ruoli tra pubblici ministeri e giudici, ma “le statistiche ci dicono che meno dell'1% dei magistrati negli ultimi anni ha fatto un passaggio di funzione dal requirente al giudicante e dal giudicante al requirente, quindi è un fenomeno assolutamente marginale”.
Poi affronta la seconda motivazione ricorrente: “allora ci dicono: ‘ma a noi ce lo chiede la gente, è un bisogno primario della gente’. Allora perché, quando c'è stato il referendum nel giugno del 2023, promosso per abrogare la legge vigente sull’unicità delle carriere, è andato a votare meno del 20% degli aventi diritto? La verità è un’altra. In tutti i paesi in cui vige la separazione delle carriere, gli uffici del Pubblico Ministero, o subito o dopo qualche anno, sono stati gerarchicamente sottoposti all’esecutivo”.
E anche il presunto “invito” dell’Europa viene smentito: “nel 2000 il Consiglio europeo dei ministri della giustizia dei vari paesi fece una raccomandazione a tutti i paesi aderenti all’Unione europea di creare la possibilità della unicità delle carriere. Quel Consiglio europeo evidenziava i vantaggi che comporta per la professionalità di un magistrato – e quindi per i cittadini – il fatto che un magistrato potesse svolgere sia funzioni requirenti che giudicanti. Così come quella fu l’esperienza di Giovanni Falcone, così come fu l’esperienza di Paolo Borsellino, di Rosario Livatino”. Nessuna delle riforme in discussione, ha concluso, affronta realmente il nodo cruciale: “Non c’è veramente una norma di tutte queste riforme che affronti il problema vero, quello serio, quello concreto: accelerare i processi. Anzi, il meccanismo dell’improcedibilità di cui parlava Nicola Gratteri i processi non li accelera, li brucia, li porta in fumo”.
“Questi sono fatti, poi ognuno li può commentare come vuole”, ha detto Di Matteo, evidenziando come di certi fatti “nessuno ne parla, soprattutto quando c’è il 23 maggio, il 19 luglio. Bisogna ricordarle anche le cose, anche le sentenze definitive”. E sono proprio le sentenze definitive a ricordarci che “è un fatto che al governo comunque c’è un partito che è stato fondato anche da autorevoli esponenti come Marcello Dell’Utri o anche il senatore Dalì che sono stati definitivamente condannati per mafia. Un partito che per vent’anni è stato rappresentato da un soggetto – parlo di Silvio Berlusconi – che in una sentenza definitiva (sentenza n. 28225 della Corte di Cassazione del 9 maggio 2014, ndr) è descritto come colui il quale dal 1974 al 1992, almeno in quel periodo è stato accertato probatoriamente, ha stipulato, mantenuto e sempre rispettato un patto di reciproca protezione con le famiglie mafiose palermitane più importanti di Cosa Nostra, anche versando centinaia di milioni delle vecchie lire a quelle famiglie mafiose palermitane, nello stesso periodo di tempo in cui quelle famiglie mafiose palermitane hanno fatto di tutto, hanno organizzato di tutto: dall’omicidio di Piersanti Mattarella, all’omicidio del generale Dalla Chiesa, all’omicidio di Ninni Cassarà, alla strage Chinnici e a tutto il resto”.
Sul genocidio in Palestina

Durante l’incontro, è stato affrontato anche il tema del conflitto in Palestina. Alessandro Di Battista ha parlato apertamente di una “mattanza quotidiana di bambini — oggi ne hanno ammazzati oltre 70”, puntando il dito contro l’assenza istituzionale e l’indifferenza di molti artisti e personaggi influenti:
“La Presidente del Consiglio potrebbe fare mille azioni, e invece non dice una santa parola. Ma come fa a dormire la notte?” Ha poi aggiunto con tono critico: “di cosa hanno paura i politici e gli artisti famosi? Dei contraccolpi mediatici? Di perdere qualche opportunità di carriera? Ma qui c’è gente — magistrati, giornalisti veri — che ha pagato un prezzo infinitamente più alto: la vita, fatta a pezzi, a Gaza, mentre facevano semplicemente il loro dovere. Io davvero queste cose non riesco a comprenderle.”
Sul tema è intervenuto anche Nino Di Matteo, soffermandosi in particolare sulla narrazione mediatica e sulla posizione politica dell’Italia nel conflitto mediorientale.
Parlando della crisi in corso, ha definito “incredibile” la “rappresentazione falsa di quello che è il genocidio in Palestina”. E ha messo in discussione il ruolo dell’informazione: “quello che mi preoccupa è la corruzione mediatica. E per corruzione non intendo il pagamento in denaro o altri vantaggi per manipolare le notizie, ma quel tarlo della falsa rappresentazione che si impossessa dell’informazione.”
Con ancora più fermezza, ha chiamato infine in causa le responsabilità politiche e istituzionali: “non posso non notare che il silenzio equivale alla complicità. Fornire armi utilizzate per quel tipo di sterminio, per quel genocidio, significa essere complici. E devo dirvi che, a volte, davanti al silenzio e alla complicità anche del mio Paese, del nostro Governo, provo vergogna per essere un cittadino italiano.”