
Parlare non è mai neutro, la lingua è specchio della cultura che la esprime e agente del suo cambiamento. La sentenza, in questa ottica, esercita una profonda influenza sulla lingua.
Il riconoscimento della violenza contro le donne nel nostro paese, sotto il profilo culturale, politico e giuridico rappresenta un importante capitolo -non ancora pianamente elaborato- del processo di traformazione degli assetti sociali e culturali scatenati dall’emancipazione delle donne.
Le tappe normative del contrasto alla violenza - e la loro applicazione- restituiscono pienamente la difficoltà del passaggio da una società patriarcale - con le sue regole scritte e non scritte – ad una dove il rapporto tra i sessi è segnato da un reciproco riconoscimento di libertà.
Già nel 1979, in “Processo per stupro”, l’avvocata TINA LAGOSTENA BASSI, nei seguenti termini interverrà su come, la lingua delle sentenze in materia di violenza di genere, consente di osservare e individuare le modalità con le quali la lingua concorre a definire la violenza come 'qualcosa che capita', cancellando o ridimensionando le responsabilità.
[…] Ed allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d’oro, l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare venire qui a dire «non è una puttana». Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza […]»
Gli stereotipi e i pregiudizi, quando si radicano nei testi delle sentenze, portano ad una rappresentazione sociale della violenza che attenua le responsabilità degli aggressori. Ne fornisce ulteriore prova la narrazione della violenza contro le donne per mano della stampa che, non di rado, stravolge la realtà.
In questa ottica, parlare non è mai neutro, la lingua è specchio della cultura che la esprime e agente del suo cambiamento. E la sentenza, in questa ottica, esercita una profonda influenza sulla lingua. È il luogo dove gli enunciati linguistici dispiegano il loro valore illocutorio (messa in atto di uno stato di cose) e perlocutorio (produzione di conseguenze concrete).
La lingua delle sentenze in materia di violenza di genere consente di osservare un aspetto cruciale della cultura - e dei conflitti che la attraversano – relativo allo stato del rapporto tra i sessi. Ossia come e in quale misura questi atti riconoscono e contrastano gli stereotipi legati al mancato riconoscimento della libertà femminile, o invece partecipano alla loro produzione e trasmissione.
La radice di pregiudizi e degli stereotipi osservati, poggia, al fondo, sull'appiattimento, in unica dimensione, di natura e storia: si tratta infatti di forme tese a riproporre l'antico equilibrio patriarcale, figlio di un tempo nel quale la libertà delle donne non esisteva e non era prevista, dichiarandone l'immodificabilità. Se la cancellazione del "delitto d'onore" risale a quarant’anni fa (1981), la cultura che l'ha espressa permane in forme diverse e innerva tratti del senso comune, nonostante i profondi rivolgimenti che hanno trasformato i nostri equilibri e i diritti, sociali e civili.
In generale il tema della violenza sessuale risente moltissimo, nella sua trattazione giurisprudenziale, della sensibilità culturale ed etica del tempo in cui si esprime poiché le radici culturali che legittimano questo tipo di violenza sono così risalenti nel tempo da perdersene l’origine. Certamente il dibattito è fortemente condizionato dal perpetuarsi di stereotipi e pregiudizi legati a una visione patriarcale e androcentrica della società.
Il richiamo al desiderio maschile e all’impulso di appagarlo comporta il rischio di veicolare tolleranza verso questi comportamenti perché li riconduce a istinto naturale del maschio che si vede quasi “coartato” in presenza di una donna (spesso descritta come incauta o, peggio, provocante) al fine di soddisfare tale impulso. A ciò si aggiunge l’erronea e inaccettabile convinzione che gli uomini siano mossi da una incontrollabile esigenza sessuale da soddisfare a ogni costo, anche con la violenza, ragion per cui non si attribuisce alcun valore al consenso della donna.
Lo stereotipo maschile che si cela, in generale, dietro il racconto giudiziario di casi di violenza sessuale è altresì correlato a una sorta di ottundimento della ragione dovuto al prevalere degli istinti sessuali che molto spesso vengono raccontati come “naturali” o “incontenibili”.
La gelosia è spesso valorizzata come movente nel racconto giudiziario per giustificare la riduzione della capacità di giudizio dell’autore del crimine. Un esempio illuminante in tal senso si rinviene nella motivazione di una sentenza del Tribunale di Palermo in un caso di maltrattamenti verso la compagna in cui si legge: “A causa della sua gelosia abbiamo avuto l’ennesima discussione, perché non mi ero fatta vedere, in quanto avevo svolto attività sportiva e non avevo potuto preparare la cena”.
Analogamente in una sentenza del 2018 per un caso di femminicidio si rinvengono le seguenti paradigmatiche affermazioni: “L’impulso che lo ha portato a colpire la moglie con il coltello è scaturito da un sentimento molto forte e improvviso (…)”; “La donna lo ha illuso e disilluso (…) certamente ha agito sotto la spinta di uno stato d’animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile (…) il contesto in cui l’azione si colloca vale a connotare l’azione omicidiaria, in una ipotetica scala di gravità, su di un gradino sicuramente più basso rispetto ad altre fattispecie analoghe”.
Come si può agevolmente notare, in entrambi i casi si mettono in relazione, in un rapporto di causa-effetto, comportamenti anche legittimi della donna (essere andata in palestra invece di restare a casa a preparare la cena) con la gelosia maschile al solo scopo di giustificare il comportamento violento. In sostanza viene identificato l’atto violento come reazione ad azioni o atteggiamenti della vittima.
Nelle motivazioni non si attribuisce alcuna rilevanza al consenso e pertanto gli abusi non vengono individuati come tali, ma vengono ricollegati alla asserita naturale esuberanza della sessualità maschile. Le sentenze, in quest’ottica fanno largo uso di un lessico “deresponsabilizzante”: l’uso delle parole diviene funzionale a una narrazione mistificata degli eventi. A seguire, alcuni esempi:
I. Nel concedere le attenuanti generiche, la giudice afferma che le condotte violente dell’uomo «appaiono causate anche da una forte incompatibilità caratteriale con la parte offesa che ha finito per scatenare l’indole violenta dell’****» [Tribunale di Salerno]
II. «non molto scaltra, non avendo punti di riferimento, tanto da cercare amicizie sui siti di incontro, non essendo circondata da soggetti in grado di proteggerla, si trovava in un momento di debolezza e solitudine, tale da attenuare le sue capacità di raziocinio e da renderla particolarmente fragile e vulnerabile, vittima ideale di ogni possibile sopruso [...]» (RM, 2014, s.42, Violenza sessuale).
III. «la moglie [...] non è decisa nelle sue scelte, manifesta amore e subito dopo disprezzo e questo fa impazzire il marito» (RDN, 2018, s. 23 Femminicidio);
IV. il tenore di vita che i testi hanno delineato (viaggi, crociere e vacanze) e le continue riconciliazioni tra i due hanno tuttavia reso la condizione di afflizione della parte offesa meno drammatica» (RDN 2019, s. 19, Maltrattamenti familiari);
V. «talune condotte non sufficientemente oppositive o di vera e propria soggezione, le quali a prima vista potrebbero apparire inesplicabili se giudicate col senso comune» (RM 2014, s.49, Violenza sessuale).
VI. «l'imputato esprime "sentimenti amorosi", la minore è munita di una personalità sessualmente esuberante, proattiva e molto disinibita [ha] attitudine a intrattenere molteplici relazioni sentimentali» (RM 2015, n.43, Violenza sessuale, produzione materiale pedopornografico);
Vediamo ora, in conclusione, il precipitato di questo humus culturale sin qui descritto:
«La persona che in una foto teneva una mano sulla bocca era ****, e forse la teneva sul viso per svegliarla. La foto che ritrae la donna a terra seminuda è relativa a quando si stava riposando. Quanto alla frase in cui si sente dire alla **** "basta basta" secondo **** tali parole erano solo una dimostrazione di appagamento sessuale. Quando le aveva detto
"zitta troia" non lo aveva fatto per disprezzo ma preso dall'enfasi del rapporto sessuale» (RDN s.20 Violenza sessuale di gruppo 2015).
Prendendo come esempio l’ultimo caso riportato, se si toglie la retorica così evidentemente fittizia che stravolge così palesemente i fatti nel tentativo di attenuare a tutti i costi le responsabilità dell'aggressore, e si resta invece all'oggettività dei fatti, cosa resta?
Resta una donna a terra, seminuda, con gli occhi chiusi, con un uomo che le mette a mano sulla bocca. Ad un certo punto si sente lei che dice «basta, basta» e lui che le intima brutalmente di tacere.
Ecco, se si restasse ai fatti non si faticherebbe a riconoscere la responsabilità dell'aggressore e giustizia alla vittima Si sarebbe meno esposti al rischio di distorsione che il pregiudizio comporta e si vedrebbe rafforzata la capacità di giustizia del paese.
Per le donne certamente, ma non solo. Anche per la dignità dello Stato e per la qualità democratica delle nostre Istituzioni.
Concludo con l’incipit dell’arringa di Lagostena Bassi: «Che significa questa nostra presenza? Ecco, noi chiediamo giustizia. Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare, non c'interessa la condanna. Noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia, ed è una cosa diversa. Che cosa intendiamo quando chiediamo giustizia, come donne? Noi chiediamo che anche nelle aule dei tribunali, ed attraverso ciò che avviene nelle aule dei tribunali, si modifichi quella che è la concezione socio-culturale del nostro Paese, si cominci a dare atto che la donna non è un oggetto. Noi donne abbiamo deciso, e Fiorella in questo caso a nome di tutte noi - noi le siamo solamente a lato, perché la sua è una decisione autonoma - di chiedere giustizia. Ecco, questa è la nostra richiesta. »
Nonostante negli ultimi dieci anni, sull’onda di mutamenti e mobilitazioni sociali delle donne, si sia prodotto un mutamento della normativa relativa al contrasto alla violenza -dallo Stalking (2009) a Codice rosso (2019), passando per la ratifica della Convenzione d’Istanbul (2013), alle Norme sulla violenza di genere (2013), alla legge per la tutela Orfani di femminicidio (2018), alla recente introduzione del reato di femminicidio (2025)-,
nostra richiesta è rimasta invariata, a distanza di quarantasei anni, stiamo ancora chiedendo giustizia.
Quanto riportato in questo articolo non intende in alcun modo sminuire il lavoro svolto negli ambiti giudiziari in materia di violenza di genere, ma piuttosto offrire una chiave di lettura critica riguardo alla presenza di quella che comunemente viene definita “violenza di genere istituzionalizzata”.
In questa ottica, l’articolo si propone di promuovere cambiamenti nei comportamenti socio-culturali, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica fondata su modelli stereotipati dei ruoli di donne e uomini.
Infine, a titolo informativo, si consiglia la lettura del PROGETTO STEP (programma finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità per promuovere la prevenzione alla violenza contro le donne-), il quale propone di indagare gli stereotipi e i pregiudizi che colpiscono la donna vittima di violenza in ambito giudiziario e sulla stampa, rivolgendosi a diversi target professionali (magistrate/i; avvocate/i; rappresentanti delle forze dell’ordine; giornaliste/i; studenti universitari).